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Lehman Brothers: parte una Causa contro il sistema

Scritto il alle 14:57 da Danilo DT

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Chi pensava che Lehman Brother facesse fallimento senza generare conseguente ed onde d’urto a lunga gittata ha sbagliato di grosso. Anche perché il default Lehman Brothers ha colpito molti risparmiatori che avevano acquistato l’obbligazione prendendola dal fatidico elenco dei titoli considerati “sicuri” dal consorzio Patti Chiari, un elenco dove si trovavano solo obbligazioni che avessero dei requisiti di tranquillità di un certo tipo. In sintesi un buon rating ed una bassa volatilità.

Però qualcosa ovviamente non ha funzionato.
Il problema di fondo è legato non a Patti Chiari, ma a come viene generato, monitorato e modificato il rating di un emittente. Lehman Brothers, ormai da giorni si trovava con un CDS (Credit default swap) in tensione. Ma il mercato non credeva che potesse mai arrivare un fallimento della banca d’affari americana. E così, il venerdì prima del fatidico momento clou, culminato con la consegna dei libri contabili in tribunale e la richiesta della procedura Chapter 11, Lehman Brothers navigava serenamente tra i titoli investment grade, e regalava l’illusione, a chi credeva ciecamente a Patti Chiari, di avere in mano un bond assolutamente tranquillo e sicuro.

La vicenda Lehman ha insegnato a tutti un dato di fatto tanto banale ed ovvio quanto veritiero.
Di sicuro c’è solo la morte. Tutto il resto è opinabile.
Lo sanno bene i possessori dei bond che ieri hanno presentato, tramite uno studio di avvocati, una citazione in tribunale. 350 obbligazionisti che puntano il dito su Patti Chiari e sulle agenzie di rating.
La richiesta è ovvia: rimborso dei bond in default , oltre che degli interessi e delle spese processuali.

Cosa accadrà?

 

Lasciando da parte quel poco che ha portato di “buono” il default di Lehman Brothers (mi riferisco a Basilea 3, ad una futura forse regolamentazione dei CDS) e di “cattivo” (troppo), credo sia veramente difficile poter vincere questo genere di causa. La verità è che il default di Lehman Brothers è stato un fulmine a ciel sereno che ha colpito tutto il sistema.
Per averne conferma, basta guardare il paramento di rischiosità più corretto, democratico e valido in assoluto: il prezzo.
E come è già successo in passato, mi ricollego ad un’email di un lettore che, stamattina, in virtù di queste news mi chiede un parere un po’ particolare:

Buongiorno Dream.
Sono Carlo, ho 57 anni e sono tra i tanti risparmiatori tartassati dalle banche. Ho avuto l’onore di ritrovarmi in portafogli sia delle Argentina, sia delle Parmalat e sia delle Lehman Brothers.
Su quest’ultime avevo avuto all’atto d’acquisto delle rassicurazioni della banca, la quale mi aveva garantito la solvibilità dell’emittente in quanto il bond faceva parte di quell’elenco di titoli di Patti Chiari , dove si dovrebbero (il condizionale è d’obbligo) trovare titoli sicuri.
E infatti Lehman è fallita.
Ho aderito alla cosiddetta insinuazione al passivo tramite la stessa banca, ma leggendo qua e là, mi pare di capire che, se mai recupererò qualcosa, saranno pochi spiccioli.
Ora però ho preso una decisione. Voglio fare causa alla banca. Secondo lei qual è la percentuale di successo di questa mia iniziativa? Faccio bene? Non posso continuare a stare a guardare. LE banche ci prenderanno anche le mutande, è giusto reagire.
La ringrazio fin d’ora per il suo interessamento.

Risponderò in modo breve e spero efficace. Fare una causa alla banca non è come andare a comprare un etto di prosciutto dal salumiere. Occorre tenere conti di questi elementi:

1) in giro è pieno di studi di avvocati che si girano i pollici, e che fanno il possibile per invogliare i poveri investitori tartassati a fare causa alle banche (con loro come difensori). C’è solo una certezza: la parcella. Tutto il resto è relativo

2) per fare causa ad una banca occorre un’attenta analisi sia su come è stata generata l’operazione, tenendo conto sia del portafoglio, dell’età del cliente, dell’ottica temporale, della predisposizione al rischio, più una serie di altri molteplici fatti. Tra cui la documentazione firmata, che resta (in caso di lacune) uno degli appigli migliori su cui puntare.

3) Le banche hanno al loro servizio studi potentissimi e capaci. Si rischia di finire schiacciati ancor prima di poter discutere la situazione

4) Se invece c’è un appiglio, l’invito che potrei farle è cercare di transare. Si evitano tante beghe e alla fine si riesce a risolvere dignitosamente la transazione.

5) Oppure…tentare la fortuna con una causa come descritta nell’articolo. Ma in questo caso, secondo me, il margine di successo è enormemente inferiore di quanto invece si potrebbe ottenere da un’azione verso l’intermediario. A patto, ribadisco, che ci siano i presupposti per agire.

 

L’ipotesi CLASS ACTION

 

E poi c’è forse la soluzione migliore, ovvero come dice Gremlin “l’unione fa la forza“, ovvero la CLASS ACTION.

 

Cosa e’ una class action?

Con la finanziaria 2008 e’ stata introdotta nell’ordinamento italiano una azione giudiziaria che consente ad associazioni e comitati di chiedere al giudice l’accertamento di un diritto alla restituzione di somme o al risarcimento del danno in alcune materie (vedi dopo). La peculiarita’ di quest’azione consiste nel fatto che, diversamente dalle “normali” cause in tribunale, questo accertamento non varra’ solo fra le parti nel processo, ma anche nei confronti di tutti coloro i quali, pur non prendendo parte al giudizio, vi abbiano aderito.

 

Su che cosa si puo’ fare una class action?

Non si puo’ proporre una class action per far valere qualsiasi diritto ma solo nei casi previsti:
– contratti stipulati mediante l’uso di formulari, o comunque contratti le cui clausole non sono state oggetto di negoziazione fra i contraenti (ad esempio, tutti i contratti di telefonia, servizi, assicurazioni, bancari);
– danni da fatti illeciti extracontrattuali (ad esempio, danni da prodotto difettoso);
– danni derivanti da pratiche commerciali scorrette o da comportamenti anticoncorrenziali.
In tutti i casi occorre che sussista l’interesse collettivo dei consumatori o utenti. Ci pare ovvio che il legislatore non abbia inteso “interesse collettivo” in senso tecnico giuridico (ossia interesse che fa capo ad un ente esponenziale di un gruppo non occasionale), ma vi abbia ricompreso piu’ genericamente ogni interesse leso che faccia capo ad una pluralita’ di soggetti. In caso contrario, sarebbe pressoche’ impossibile proporre class action in Italia.

 

Chi puo’ iniziare una class action?

Una class action puo’ essere intrapresa solo da associazioni e comitati che siano adeguetamente rappresentativi di interessi collettivi fatti valere in giudizio. Non potranno dunque proporre class action i singoli consumatori, o gruppi di consumatori che non siano organizzati in comitati o associazioni.

 

Ma cosa vuol dire “adeguatamente rappresentative”?

In assenza di specificazioni normative, sara’ compito del giudice valutare la legittimazione dell’associazione ad agire in giudizio. In passato, con riferimento ad azioni giudiziali sotto questo profilo analoghe (azione inibitoria ex art. 1469 sexies c.c.), la giurisprudenza ha valutato la sussistenza di una adeguata rappresentativita’ sulla base dei seguenti criteri: i contenuti e le finalita’ di tutela dei consumatori presenti nello statuto dell’associazione; l’aver preso parte a organismi pubblici; il riconoscimento della rappresentativita’ da parte di altri giudici.
Il problema della rappresentatività’ a nostro avviso operera’ in modo differenziato per le associazioni che si occupano di tutela dei consumatori e comitati preesistenti che si sono occupati del problema, da una parte, e dall’altra i comitati creati appositamente per promuovere la class action.
In relazione ai primi sara’ molto piu’ semplice per il giudice valutarne la rappresentatività’, poiche’ potra’ analizzarne l’operato nel passato, la storia, la diffusione e pubblicizzazione del proprio operato fra la gente, la possibilita’ di raggiungere con i propri mezzi ampie fette di popolazione.
I comitati costituiti ad hoc dovranno invece provare, a nostro avviso, in maniera piu’ pregnante la propria rappresentativita’. Se ad esempio porteranno in giudizio un problema locale, la valutazione potra’ vertere anche su come hanno coinvolto l’utenza (sui quotidiani locali ad esempio) o sulla portata del problema fra l’utenza.

 

Quando un interesse collettivo puo’ essere fatto valere con una class action?

La legge prevede come ammissibili solo le azioni che riguardino interessi suscettibili di “adeguata tutela” tramite lo strumento della class action. Cosa vuol dire? A nostro avviso, questo criterio atterra’:
– la diffusione dell’interesse collettivo che si intende tutelare (secondo questo criterio non si potrebbero proporre class action che riguardino un numero di consumatori troppo esiguo);
– la “non generalizzabilita’” del caso portato all’attenzione del giudice. Secondo questo criterio non si potrebbe proporre una class action quando la modalita’ con cui la lesione del diritto (o la violazione del contratto) si e’ verificata e la responsabilita’ che ne consegue non possono che esser valutate caso per caso. Ad esempio, viene iniziata una class action contro l’inefficienza dei call center di un gestore telefonico; non crediamo che questo, che pure e’ un inadempimento contrattuale, sia giudicabile con la class action poiche’ puo’ riguardare inefficienze troppo diverse fra loro per poterne astrarre una categoria di inadempimento. Diverso se l’azienda pratica una tecnica pratica commerciale scorretta “uniforme” (pubblicita’ ingannevole sul sito dell’azienda).

 

In quale tribunale va proposta la class action?

La legge prevede che debba essere proposta davanti al Tribunale in cui ha sede l’azienda (ad esempio, una azione contro Telecom andra’ proposta a Milano). Riteniamo pero’ che come “sede” non si debba intendere esclusivamente la sede legale (altrimenti il legislatore lo avrebbe specificato), ma anche (come prevede l’art. 19 c.p.c.) il luogo in cui l’impresa ha uno stabilimento e un rappresentante autorizzato a stare in giudizio. Rimane aperto il problema per citare quelle aziende straniere che non hanno in Italia sedi con un rappresentante autorizzato a stare in giudizio.

 

Si possono proporre piu’ class action da parte di soggetti diversi per lo stesso problema?

La legge non specifica nulla; ben potrebbero dunque esistere davanti al tribunale di Milano due distinte class action presentate da due diverse associazioni contro, ad esempio, gli 899 di Telecom. Riteniamo che in questi casi molto probabilmente il giudice, per evitare che sullo stesso problema ci siano pronunce contrastanti, riunira’ le due cause in una unica.

 

Chi puo’ aderire ad una class action?

Uno dei piu’ grandi difetti di questa legge, che ne limita fortemente il campo di azione, e’ che potra’ aderire alla class action solo il “consumatore” cosi’ come definito nel codice del consumo, cioe’ “la persona fisica che agisce per scopi estranei all’attivita’ imprenditoriale, commerciale, artigianale o professionale eventualmente svolta”. Ne consegue che non potranno partecipare ad una class action soggetti diversi dai consumatori, cioe’ chi, come una qualunque azienda piccola, grande o individuale, abbia subito un danno nell’esecuzione di un contratto di adesione. Per fare un esempio, in caso di class action contro l’inadempimento di un gestore telefonico, potranno partecipare i singoli consumatori che abbiano una utenza residenziale, non anche le utenze classificate come “business”, seppure il danno che ne ricevono, ma soprattutto l’illecito contrattuale che ne e’ a monte, sono identici.

 

Il singolo consumatore: azione individuale o class action?

Nel caso in cui sia gia’ stata iniziata una class action, il singolo consumatore che intenda far valere in giudizio il proprio diritto al risarcimento per il medesimo problema potra’:
– promuovere una azione individuale contro l’impresa davanti al giudice competente per la propria residenza;
– aderire alla class action. In quest’ultimo caso, che la class action sia vittoriosa o sia perdente, egli sara’ vincolato a quella decisione del giudice e non potra’, a sentenza emessa, promuovere una propria azione individuale;
– intervenire nella causa di class action non come “aderente” ma con una propria azione giudiziale. Il consumatore potra’ infatti portare in giudizio le proprie ragioni (con un proprio avvocato) e le proprie prove a sostegno della causa comune.
In ogni caso -riteniamo- il consumatore non potra’ aderire a diverse class action aventi lo stesso oggetto proposte da due diverse associazioni. Infatti “aderire” alla class action significa comunque agire in giudizio, e per i principi del diritto processuale italiano non si puo’ agire nei confronti dello stesso soggetto e per lo stesso motivo con due cause contemporaneamente. L’aderente potra’ comunque sempre ritirarsi dalla class action fino al momento della precisazione delle conclusioni.

 

Chi, e come, fa sapere che e’ in corso una class action?

 

Una volta che il giudice ha ritenuto ammissibile la class action, dispone che sia data, a cura del proponente, adeguata informazione sulla stessa. La legge non spiega altro e dunque, molto probabilmente, sara’ lo stesso giudice a decidere come andra’ pubblicizzata l’azione. Ma per avere una pubblicita’ idonea a raggiunger il maggior numero di possibili aderenti, soprattutto nelle cause di rilievo nazionale, servirebbero all’associazione che ha proposto l’azione ingenti fondi (si pensi alla pubblicazione su quotidiani nazionali, ad esempio). Cio’ di sicuro inibirebbe molte associazioni con limitate disponibilita’ economiche a promuovere class action. Del resto e’ fondamentale che i consumatori siano ben informati sulle class action esistenti ed e’ indispensabile che chiunque ne possa avere facilmente conoscenza tramite un unico mezzo di informazione istituzionale di base. Pertanto proponiamo/auspichiamo che (in fase di applicazione della normativa) sia predisposto un sito Internet gestito dal Ministero di Grazie e Giustizia all’interno del quale ogni proponente, la cui azione sia stata ammessa dal giudice, possa comunicare l’esistenza della class action e l’oggetto della stessa. In questo modo chiunque potra’ in qualsiasi momento consultare l’elenco delle class action attive in Italia. L’idonea pubblicita’ a garanzia dell’utenza, se interpretata in modo eccessivamente oneroso e non proporzionale alle forze del proponente, rischia di essere paralizzante per il meccanismo stesso.

 

L’adesione del consumatore alla class action

La legge prevede che il consumatore che intende aderire alla class action lo comunichi per iscritto all’associazione proponente, senza pero’ specificare nel dettaglio come cio’ debba avvenire. Sembrerebbe dunque sufficiente anche l’invio di una email o di una raccomandata AR, ma un simile meccanismo cozza con l’esigenza di certezza del diritto propria del nostro ordinamento processuale. Infatti una mail, seppur con nome e cognome puo’ non essere sufficiente ad identificare con certezza il soggetto che aderisce; similmente per la raccomandata. Dal ricevimento della comunicazione si producono effetti giuridici che vincoleranno l’aderente, e l’impresa ben potrebbe contestare l’adesione stessa, creando incertezza e caos applicativo. Seppur appaia un “appesantimento burocratico” riteniamo estremamente utile che l’aderente provveda a far autenticare la propria firma e fotocopia del documento presso il Comune di residenza o domicilio, e solo cosi’ spedire l’adesione al proponente per raccomandata AR.

 

La sentenza

Al termine della causa se il giudice ritiene di accogliere la domanda giudiziale, si pronuncia accertando l’esistenza del diritto al risarcimento del danno o alla restituzione, senza pero’ quantificare gli stessi, ma limitandosi ad individuare i criteri da utilizzare nella quantificazione del loro ammontare. Inoltre, qualora sia possibile allo stato degli atti, il giudice determina una somma minima che deve comunque essere corrisposta ai singoli consumatori che hanno aderito all’azione. Rimane il dubbio sulla immediata esecutivita’ di questa parte della sentenza: se cioe’ nel caso in cui l’impresa non corrisponda questa somma il consumatore possa iniziare subito una esecuzione forzata. Cio’ perche’ la sentenza emessa dal giudice dovrebbe essere di accertamento del diritto, e non gia’ anche di condanna dell’azienda, rinviando alle successive fasi (conciliativa o giudiziale (!!!)) la liquidazione degli importi. A nostro avviso, a prescindere dalle definizioni giuridiche e dottrinali, dovrebbe esser possibile eseguirla anche solo per quegli importi minimi senza dover attendere gli ulteriori sviluppi.

 

La proposta transattiva dell’azienda, l’accettazione, la conciliazione. La beffa del legislatore

– E dopo la sentenza?
Tutto e’ rimesso alla “buona volonta’ dell’azienda”. Vediamo come.
In caso di vittoria della class action, l’impresa chiamata in causa potra’ proporre ai singoli consumatori una transazione, mediante il pagamento di una somma a liquidazione del danno. La proposta dovra’ essere fatta entro sessanta giorni dalla notificazione della sentenza e, se accettata, diventera’ titolo esecutivo (con il quale il singolo potra’ attivare una procedura di esecuzione forzata). Nel caso in cui la proposta non venga fatta, o non venga accettata, si apre una ulteriore fase di conciliazione.
– Un dubbio: chi accetta la proposta?
I singoli o il proponente? La legge non e’ chiara e, da una lettura sistematica parrebbe che qualora anche un solo consumatore non abbia accettato l’eventuale proposta dell’azienda, il presidente del Tribunale dovra’ costituire una “camera di conciliazione”, ossia un tavolo di trattativa, sulla liquidazione dei danni patiti da ogni consumatore che non abbia gia’ transatto. Questa camera sara’ composta da un avvocato scelto dal proponente, uno scelto dall’impresa e presieduta da un avvocato cassazionista. I consumatori che hanno gia’ aderito alla class action (e solo loro), se intendono partecipare alla fase conciliativa, dovranno espressamente farne domanda.
– E cosa accade nella “camera di conciliazione”?
Questi gli scenari possibili:
– gli avvocati si accordano sui risarcimenti da pagare ai singoli consumatori;
– non c’e’ accordo, o c’e’ solo per alcune posizioni, o ancora l’impresa non partecipa nemmeno, e la camera va deserta.
In quest’ultimo caso, i singoli consumatori pur avendo una pronuncia che accerta il loro diritto al risarcimento, dovranno nuovamente intentare causa, e questa volta da soli, contro l’impresa per ottenere la quantificazione e liquidazione del proprio danno.

 

Attenzione: non e’ l’America. Una class action pensata per non funzionare

Il legislatore ce l’ha messa tutta e c’e’ riuscito: far finta di potenziare la tutela dei diritti, lasciando la situazione sostanzialmente invariata.
Come abbiamo gia’ detto questa class action si applica, sostanzialmente, solo ai contratti dei consumatori lasciando inspiegabilmente fuori moltissimi altri campi dove, come dimostrano le esperienze straniere, la class action si dimostra un ottimo strumento (contratti conclusi da chi ha partita IVA, contratti di lavoro, rapporti con la pubblica amministrazione).
Esiste all’interno della legge una pericolosissima disposizione che, se non adeguatamente interpretata, rischia di vanificare la class action. L’art. 140 bis, comma 3, prevede infatti che il giudice possa “differire la pronuncia sull’ammissibilita’ della domanda quando sul medesimo oggetto e’ in corso un’istruttoria davanti ad una autorita’ indipendente”. Cio’ vuol dire che ogniqualvolta un’autorita’ quale l’Agcom o l’Agcm abbia aperto un procedimento su quel tema, il giudice potrebbe sospendere il giudizio. Seppur si tratta di una mera possibilita’ lasciata al vaglio del giudice, rappresenta comunque una pericolosa dilazione per altro insensata posto che un’istruttoria amministrativa non dovrebbe avere alcuna interferenza con una causa civile.
Ma la vera beffa si ha nel fatto che una azione nata per dare un risarcimento si possa concludere con una mera statuizione di principio.
Infatti, se scopo finale della class action e’ di garantire il risarcimento dei danni ai singoli aderenti, questa class action e’ inutile.
Gia’ il fatto che dopo una sentenza che accerta un diritto e perfino, laddove possibile, una somma minima da corrispondere, sia previsto un tavolo di conciliazione facoltativo per l’azienda (!!!), per liquidare le somme, dimostra chiaramente l’intento del legislatore: creare uno strumento giudiziale vuoto e infruttuoso.
Che interesse avrebbe mai l’impresa a partecipare alle fasi successive alla sentenza? Nessuno. Puo’ non fare alcuna proposta; puo’ disertare la camera di conciliazione (tanto non la punisce nessuno); puo’, solo per una questione di immagine, proporre una transazione minima per “salvare la faccia”. Rimane comunque consapevole del fatto che senza il suo consenso il singolo sara’ costretto, dopo aver gia’ fatto -E VINTO- un giudizio (e pagate le relative spese) farne un’altro, questa volta per quantificare il suo risarcimento; e probabilmente dopo, un altro ancora, per eseguire la seconda sentenza che avra’ ottenuto (esecuzione forzata). Arriviamo cosi’ a ben tre cause per l’ottenimento di quanto gli spetta!!!

 

Ma allora perche’ fare una class action?


Nonostante il legislatore abbia fatto di tutto (e vi sia riuscito) per creare uno strumento dalle armi spuntate, crediamo che sia importante utilizzarlo e spingere contemporaneamente per una sua radicale riforma. Infatti, se dal quadro che ne abbiamo prospettato emerge chiaramente che alla maggior parte dei consumatori converra’, per celerita’, proporre azioni individuali piuttosto che aderire alla class action, ci sono una serie di casi in cui questo strumento potra’ essere utile: ci riferiamo in particolare a quelle situazioni in cui il diritto al risarcimento non e’ certo, o non e’ evidente, o il cui accertamento comporta una istruttoria particolarmente complessa e costosa. In questi casi, fara’ buon gioco al consumatore procedere collettivamente e dividere con il proponente e gli altri aderenti i costi della propria tutela. Ad esempio, in caso di azione giudiziaria per l’illegittima modifica delle condizioni di un contratto di telefonia, sara’ a nostro avviso piu’ utile per il singolo aderire alla class action piuttosto che proporre una propria azione individuale. Cio’ perche’ la questione e’ normativamente complessa e la modesta entita’ del danno non la renderebbe conveniente.

 Testo tratto direttamente dal sito dell’ADUC

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