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Finanza e mercati: stop alla speculazione, ora ci vuole il buon senso
Kenneth Rogoff : noto professore universitario e grande esperto della “grande crisi” del XXI secolo. E’ l’ora di cambiare registro, avanti così non si può e non si deve andare.
Molti si chiedono se i regolatori ed i legislatori siano riusciti a correggere i difetti del sistema finanziario che hanno portato il mondo sull’orlo di una seconda Grande Depressione. La risposta breve è no.
E’ ovvio che le possibilità di un nuovo crollo finanziario simile a quello del 2008 siano molto ridotte, dato che gran parte degli investitori, dei regolatori, dei consumatori e anche dei politici si ricorderanno a lungo quest’esperienza quasi catastrofica. Ci vorrà, pertanto, del tempo prima che l’avventatezza riprenda il sopravvento.
Ma, in realtà non è cambiato molto. La regolamentazione e le norme e prodotte sulla scia della crisi sono più che altro servite a mettere una toppa per conservare lo status quo, mentre i politici ed i regolatori non hanno né il coraggio politico e neppure la convinzione intellettuale necessaria per tornare ad un sistema più chiaro e semplice.
Nel suo recente discorso in occasione della conferenza annuale delle banche centrali a Jackson Hole (Wyoming), Andy Haldane, direttore esecutivo della Bank of England, ha lanciato un forte appello per un ritorno alla semplicità nella regolamentazione bancaria. Haldane ha sottolineato come tale regolamentazione sia partita da un numero limitato di linee guida specifiche, per evolversi in algoritmi statistici estremamente complicati finalizzati a misurare l’adeguatezza dei rischi e del capitale.
La complessità legislativa sta oltretutto aumentando in maniera esponenziale. Negli Stati Uniti, il Glass-Steagall Act del 1993 era di sole 37 pagine ed ha contribuito ad assicurare una stabilità finanziaria per circa settant’anni. Il recente Dodd-Frank Wall Street Reform and Consumer Protection Act è di 848 pagine e stabilisce che le agenzie di regolamentazione debbano produrre a loro volta una serie di documenti aggiuntivi con regole ancor più dettagliate. Mettendole insieme si raggiungeranno facilmente 30.000 pagine.
Come sottolinea Haldane, anche l’acclamata “Volcker rule”, finalizzata a creare un muro divisorio tra il settore bancario commerciale ordinario e le attività più rischiose del proprietary trading, si sta sempre più ammorbidendo nel corso dell’iter legislativo. L’idea, di base semplice, dell’ex presidente della Federal Reserve è stata integrata e diluita con centinaia di pagine di linguaggio giuridico.
Per lo meno il problema rimane semplice. Con il complicarsi della finanza, i regolatori hanno cercato di mantenere il passo adottando regole sempre più complicate. E’ ormai diventata una corsa agli armamenti che le agenzie governative con fondi inadeguati non hanno alcuna possibilità di vincere.
Già negli anni ’90, i regolatori si lamentavano, in privato, della difficoltà di mantenere il personale con le competenze adeguate a capire il rapido evolversi dei mercati dei derivativi. Gli assistenti ricercatori con un anno di esperienza sui derivativi venivano infatti attirati dal settore privato con stipendi cinque volte più alti di quelli governativi.
Nello stesso periodo, a metà degli anni ’90, gli accademici iniziarono a pubblicare degli studi in cui suggerivano che l’unico modo efficace per regolamentare le banche moderne era individuare una forma di auto-regolamentazione. L’idea era quindi di lasciare che le banche delineassero il proprio sistema di gestione dei rischi, di limitare al minimo qualsiasi ispezione e infliggere punizioni severe in caso di perdite ingenti al di fuori dei parametri concordati.
Molti economisti sostengono che questi modelli ingegnosi fossero pieni di difetti in quanto la stessa minaccia di punizione non era affatto credibile soprattutto nel caso di un crollo sistemico con gravi effetti su gran parte del sistema finanziario. Ma gli studi furono comunque pubblicati e le teorie implementate. Non è necessario descrivere le conseguenze.
Il modo più trasparente ed efficace per semplificare la regolamentazione è stato proposto in una serie di documenti importanti redatti da Anat Admati dell’Università di Stanford (in collaborazione con altri autori tra cui Peter De Marzo, Mertin Hellwig e Paul Pfleiderer). Il punto fondamentale è che le compagnie finanziarie dovrebbero essere obbligate ad autofinanziarsi in modo più equilibrato e non ricorrere così pesantemente al finanziamento obbligazionario.
Admati e i suoi colleghi hanno raccomandato dei requisiti che obblighino le compagnie finanziarie a produrre fondi di investimento a capitale proprio, tramite una riserva di utili o, nel caso di società per azioni, tramite l’emissione di capitale azionario. Lo status quo permette invece alle banche di finanziare i contribuenti con stretti margini di capitale ricorrendo al debito in termini più consistenti rispetto alle imprese non finanziarie. Alcune grandi aziende, come la Apple, non hanno praticamente debito. Con una maggiore dipendenza dai capitali, le banche potrebbero essere in grado di assorbire maggiormente le perdite.
L’industria finanziaria si lamenta del fatto che l’implementazione di un obbligo di fondi di investimento a capitale proprio comporterebbe una riduzione dei prestiti, ma ciò non ha senso in un contesto generale di equilibrio. Tuttavia, i governi non hanno fatto grandi progressi in questa direzione, infatti le nuove regole di Basel 3 rappresentano solo un piccolo passo verso il vero cambiamento.
Ovviamente, non è facile implementare una riforma finanziaria in un contesto di economia globale stagnante cercando di evitare, allo stesso tempo, di ostacolare il credito e di trasformare una fiacca ripresa in una recessione piena. Inoltre, gli stessi accademici sono colpevoli d’inerzia e alcuni di loro continuano a difendere dei modelli di mercati perfetti, senza dubbio eleganti ma decisamente errati, che danno l’impressione di essere sicuri ma che sono in realtà estremamente rischiosi.
L’idea, al momento in voga, di lasciare che le banche emettano “capitale contingente” (ovvero debito che diventa capitale nel contesto di una crisi sistemica) non è tanto più credibile dell’idea di punire duramente le banche in caso di crisi. Solo un sistema più semplice e trasparente porterebbe, alla fine, a maggiori prestiti e ad una maggiore stabilità. E’ giunto il momento di ripristinare il buon senso nella regolamentazione dei mercati finanziari.
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DT