TESTIMONIANZA SULLA GLOBALIZZAZIONE

Scritto il alle 09:20 da Danilo DT

globalizzazioneBuongiorno Dreamers!

 

Riprendiamo la settimana con una borsa che, tra alti e bassi, si preannuncia molto simile alle ultime sedute.

 

Ho ricevuto in questi giorni una lunga ed interessantissima email di un lettore, che qui chiamerò col suo nickname, alias paolo 41.

Ritengo quest’email estremamente interessante in quanto, a prescindere della eccellente validità del contenuto, rappresenta un’ottima testimonianza di un lettore che ha vissuto questi anni “sul campo” della globalizzazione, toccando con mano alcune situazioni che, oggi, sono di estrema attualità.

Ho preferito non intervenire (come invece voleva l’autore!) con le cesoie, tagliuzzando, limando, ecc. Ho lasciato l’email praticemtne in versione integrale.

 

Invito tutti alla lettura e alla discussione sull’argomento e, ovviamente, ringrazio paolo 41 per la preziosa e validissima testimonianza.

 

Eccovi il testo!

 

 

 SOMMARIO

 

§1-4- LE CONSEGUENZE DELLA GLOBALIZZAZIONE E DELLA DELOCALIZZAZIONE
§5-6- LA NECESSITA’ DI UN RILANCIO ECONOMICO.
§7- L’EDUCAZIONE.
§8- CONCLUSIONE

 

 

GLOBALIZZAZIONE E DELOCALIZZAZIONE

 

global-03.jpg§1-Le prime iniziative di globalizzazione sono state motivate dalla “necessità” di essere presenti in nuovi mercati , affrontandone e superando le difficoltà intrinseche. Ad esempio la VW, esportando in Brasile il famoso “maggiolino”, trovava diverse limitazioni, quali le quote contingentate e costi di trasporto elevati, fattori che ne limitavano i volumi e quindi la ripartizione dei costi di R&S ,sia di prodotto che di processo, della casa madre. Ma le difficoltà intrinseche erano lo scarso potere di acquisto complessivo del mercato locale, ancora sottoindustrializzato, e la concentrazione dei redditi su una limitata fascia della popolazione e della ricchezza su una fascia ancor più limitata. Queste elementari considerazioni favorirono la convergenza delle esigenze di VW e dei governi locali brasiliani, che con l’obiettivo di industrializzare il paese, aiutarono finanziariamente l’insediamento produttivo con l’ accortezza di pretendere un valore aggiunto locale elevato e comunque incrementabile nel proseguo degli anni. Il che significava trasferire in Brasile anche diverse attività dell’indotto, nelle quali il più delle volte entrarono in partecipazione le ricche famiglie locali. Questa fu la strada seguita anche da Fiat, GM, etc ed è il classico esempio di globalizzazione, cioè presenziare un mercato con un insediamento produttivo ad alto valore aggiunto locale, che permette di realizzare oltre ai profitti locali, lo “sharing” dei costi di R&S di prodotto e di processo. Iniziative analoghe sono state realizzate da aziende essenzialmente europee, americane e giapponesi in diversi paesi latino-americani, asiatici, est-europei (ma anche in Spagna, UK ed USA da parte dei giapponesi) , oltrechè in Turchia, India, Australia, Sud-Africa, etc non solo ovviamente nel settore dell’autoveicolo, ma anche in altri settori industriali per poi estendersi parzialmente anche ai settori finanziari e dei servizi (pur con logiche totalmente diverse). Ciò che caratterizza le suddette iniziative è il fatto che il Know-how di prodotto/processo rimangono presso la casa madre. In qualche caso e comunque per volumi limitati e/o per prodotti di nicchia si è verificata una contro- esportazione dal paese a tecnologia-dipendente, ma sono iniziative di scarsa importanza. Si evince che tre sono stati i più importanti fattori che hanno favorito questo tipo di globalizzazione:

-una politica locale orientata all’industrializzazione del paese che erge barriere tramite quote e dazi per limitare l’importazione di prodotti finiti e/o semifiniti
-costi di trasporto elevati per il trasferimento dei prodotti finiti, costi che ne limitavano ulteriormente la competitività rispetto a industrializzazioni locali.
-necessità delle case madri di spalmare i costi di R&S su un maggior numero di volumi produttivi.

 

§2- Dall’inizio del 1970 mi sono trasferito, per ragioni di lavoro negli USA, nella Grande Mela, e per perfezionare il mio inglese comprai un televisore a colori (in Italia avevamo ancora il bianco e nero). Consigliato da un amico decisi per un JVC giapponese, prezzi contenuti, ottima qualità, buona la tonalità del colore per quei tempi; non ricordo esattamente le dimensioni dello schermo, che, seppur non modeste, non avevano niente a che fare con i grossi “catafalchi” prodotti dalle case americane, schermi enormi incastrati in mobili semplicemente orribili, almeno al mio gusto. Cosi come per le autovetture, per i frigo ,etc per il consumatore americano tutto doveva essere “BIG”. Ma il problema vero era un altro: sull’importazione dei televisori giapponesi, cosi come sulle “piccole” vetture Datsun-Nissan, VW o sulle Fiat Spider c’era un minimo dazio e nessuna limitazione di quote (introdotta più tardi, quando il toro era già fuggito dalla stalla e gli importatori avevano già consolidato le loro posizioni sul mercato). Ogni tanto la Federal Trade Commision (FTD) sollevava qualche istanza di possibile “dumping”, ma il tutto si risolveva poi in una bolla di sapone.
Con gli anni i televisori giapponesi hanno aumentato la loro penetrazione sia nel mercato americano sia nei mercati emergenti e purtroppo anche in Europa; hanno continuato a sostenere la R&S e sono leaders tecnologici nell ’elettronica del “nero” e dell’LCD.
Vi è noto come è finita la storia dei produttori americani di televisori: se ancora esistono, assemblano componenti giapponesi o coreani , magari prodotti in altri paesi asiatici a costi più bassi, ma continuano ad installarli in grossi mobili (probabilmente prodotti localmente!!!!) che avranno cambiato lo stile ma continuano ad essere orribili,…almeno al mio gusto.
La tecnologia del televisore e del nero in generale è ormai dominata dai produttori asiatici (Japan in testa) e con il propagarsi degli schermi LCD rimarrà sempre minor spazio anche ai costruttori europei. Quanto sopra è il classico caso di globalizzazione guidata dalla tecnologia: maggior parte del valore aggiunto mantenuto “in casa”, limitato valore aggiunto ( spesso solo assemblaggio finale) nei paesi consumatori.

 

La differenza fra le due globalizzazioni sopra descritte è abissale: nel primo caso sono aumentati i “valori aggiunti” sia nel mercato possessore della tecnologia sia in quello tecnologicamente dipendente, nel secondo caso si è verificata una grossa riduzione del valore aggiunto e di posti di lavoro ( operai, impiegati, tecnici e ricercatori) in USA e potenzialmente potrebbe amplificarsi anche in Europa. Naturalmente a tutto vantaggio di chi domina la tecnologia.
Senz’altro ci sono stati madornali errori nella gestione marketing di prodotto e nella R&S, cosi come nella visione “politico-industriale” (in USA e in Europa non è mai esistito un ente paragonabile al MITI Giapponese e similari enti di coordinamento industriale di altri paesi asiatici), come del resto è avvenuto nel settore automobilistico statunitense, ormai prossimo al fallimento. Soffermandoci un attimo sull’Europa, con la costituzione della Comunità Europea non è stato realizzato..dire volutamente.. nessun vero coordinamento industriale. Gli euroburocrati hanno solo pensato a imporre vincoli e paletti alle industrie della Comunità sul latte… vino…formaggio, etc, e, mentre continuavano ad aumentare le importazioni di prodotti dai paesi asiatici hanno alimentato una disputa e pareri contrastanti su dazi e libero mercato senza mai prendere decisioni a protezione dell’industria europea nel suo complesso, ma privilegiando, diciamolo sinceramente, sempre gli interessi dell’esportazioni dell’ industria tedesca.
Perlomeno nel settore auto la FTC americana ha concordato con le case giapponesi che producono in USA, una percentuale di contenuto locale che ha compensato, anche se in minima parte, la rilevante perdita di lavoro che continua a dilaniare i costruttori americani. E’ importante sottolineare il fatto che gli Stati americani facevano a gara fra loro per avere gli insediamenti produttivi asiatici nel loro territorio, usando anche incentivi finanziari e fiscali!!!!

La domanda è : continueranno i governi ad assistere impotenti a questi processi di deindustrializzazione o si attiveranno per porre rimedi?????

Richiederanno di incrementare il valore aggiunto locale e/o imporranno nuovi dazi sui componenti importati??? Agevoleranno con finanziamenti uno sviluppo tecnologico autarchico, magari in simbiosi con tecnologie similari o favoriranno joints tecnologiche con partners asiatici???? Sono tutte ipotesi mirate a recuperare posti di lavoro locali.

In alcune di queste considerazioni aleggia aria di protezionismo, ma dobbiamo essere coscienti che certi aspetti della globalizzazione hanno creato grossi scompensi nelle bilance commerciali dei singoli paesi e, una volta attenuata la crisi finanziaria, l’economia reale riassumerà il ruolo primario che le compete e , forte degli errori commessi negli ultimi anni,
cercherà di correggerli o comunque di ridimensionarli, se vuole una ripresa dello sviluppo.
E cosa farà il governo USA nel settore auto???? Finanzierà i produttori americani su ulteriori iniziative simili alle attuali…. destinate ad un probabile ulteriore fallimento perché manca il Know-how per progettare e costruire vetture più piccole e perché continuano ad essere convinti che, quando l’economia si riprenderà, i clienti riprenderanno a comprare i “gas guzzler”attuali…. o riuscirà a convincere costruttori asiatici ed europei ad entrare in joints specifiche, “brasilian style”, con GM, Ford e Chrysler??????

 

b5235636e0242d019e3936e5326c2f2e.jpeg§3- Fino a qualche anno fa Prato era uno dei centri di eccellenza della filatura e della maglieria in Italia e nel mondo, con un sistema-rete che si estendeva dalle aziende principali a fornitori di tecnologie intermedie fino ai singoli telai allocati a livello di nucleo familiare. C’era magari anche del “nero”…, ma la base tecnologica era elevata cosi come il Know-how di processo. Il sistema-rete era decisamente competitivo nel portafoglio prodotto visto nel suo complesso, eccetto che per alcuni prodotti di gamma bassa e a bassi margini, dove la concorrenza asiatica e cinese in particolare, introduceva sul mercato alternative a prezzi stracciati pur se di discutibile qualità.
Per qualcuno è stato abbastanza facile dedurre che come venivano realizzati a costi stracciati i suddetti prodotti, sarebbe stato possibile produrre a costi stracciati anche altri prodotti più remunerativi: bastava trasferire una parte del know-how tecnologico e della relativa produzione in Cina prima che lo facesse qualche altro concorrente. In pochi anni si è realizzato un processo di deindustrializzazione, sono pressoché del tutto spariti i telai “familiari”( una buona parte trasferiti in Cina) ; sono rimaste solo alcune aziende che hanno concentrato la produzione su prodotti selezionati di alta qualità e sta gradualmente esaurendosi la valenza tecnologica perché non più sostenuta da investimenti in R&S.
In compenso sono stati “importate” a Prato parecchie famiglie cinesi più o meno regolari (forse meno che più) che si alternano ai telai 24ore su 24, il ”nero”….gira in sintonia 24 ore su 24 e… i guadagni dei cinesi vengono trasferiti in Cina!!!!
E hanno subito forti contraccolpi economici e perdite di lavoro altri centri di eccellenza del settore dislocati in Italia (es: Biella)

 

§4- Nel paragrafo precedente abbiamo cercato di sintetizzare uno dei più tristi esempi di “delocalizzazione”. Generalmente tali iniziative sono legate a prodotti a tecnologia matura e mercati locali saturi, dove nella catena del costo del prodotto l’impatto del costo del lavoro ha una percentuale rilevante.
Per affrontare nuovi mercati a redditi pro-capite più bassi e per ridurre i costi industriali, si trasferisce la produzione in paesi dove la mano d’ opera ha costi bassi e magari i governi locali finanziano gli investimenti produttivi o direttamente o attraverso facilitazioni fiscali.
Calzature, tessile, pelletteria, mobilifici, parte della meccanica, etc sono esempi di settori merceologici che hanno subito e tuttora stanno subendo tale processo; ma anche la produzione di Fiat in Polonia e quella di VW nei paesi ex-Russia sono ”delocalizzazioni”, forse ancora più pesanti perché si sono portate dietro una buona parte dell’indotto.
In questi casi i vari Governi che si sono succeduti in Italia sono rimasti fermi a guardare, Confindustria e Sindacati possiamo solo definirli “complici” delle aziende che hanno delocalizzato (tanto c’erano gli ammortizzatori sociali), ma il vero problema è che in questi casi il paese riduce il suo valore aggiunto (il suo PIL per intendersi), si riduce la forza lavoro , si riducono i consumi, si riducono le entrate fiscali, etc, si alimenta la deindustrializzazione del paese.

 

 

RILANCIO ECONOMICO:

 

§5-Probabilmente è arrivato il momento di tornare sui propri passi , di analizzare cosa è stato fatto nel passato, dove sono stati commessi gli errori e quali potevano essere le alternative, perchè la ripresa economica passerà necessariamente per lo sviluppo,sia attraverso nuove iniziative industriali e il sostegno della R&S( che deve essere necessariamente collegata aa’industria e va agevolata fiscalmente così come la parte dei profitti aziendali che vanno in nuovi investimenti), sia attraverso la creazione di nuovi posti di lavoro sia attraverso l’aumento di produttività e del reddito in modo da permettere ai singoli individui di consumare ma anche di risparmiare.
Ci sono troppi sbilanciamenti nei consuntivi commerciali con alcuni paesi che agevolano le esportazioni sia con finanziamenti impropri sia mantenendo sottovalutate le loro monete. Occorre ridurre tali sbilanci.
Non possiamo più essere passivi, dobbiamo tirare fuori i m…Comunità Europea consenziente o meno. Abbiamo una parte del sindacato che è ormai preistorico nella sua difesa dell’esistente (difesa dei salari e degli ammortizzatori sociali) e che cerca di fare partito in politica, così come la Confindustria, che in generale non riesce ad esprimere un sostanziale coordinamento di idee o iniziative per lo sviluppo (salvo delocalizzare!!!!! ).
Ma se la Basilicata o la Puglia fossero parte della nuova United States of Italy e avessero l’autonomia di finanziare e agevolare un insediamento produttivo come hanno fatto alcuni stati americani con i produttori giapponesi, se i sindacati accettassero scale di salario ridotto per chi lavora nelle regioni con più alto tasso di disoccupazione quali le regioni del sud-italia, se il governo agevolasse la tassazione di tali iniziative sia a livello del costo del lavoro sia a livello delle altre tasse afferenti all’industria, se le spese di R&S fossero detassate del tutto, non possiamo pensare che qualche imprenditore andrebbe a delocalizzarsi in Basilicata e Puglia, anziché in altre nazioni. Iniziative paragonabili a quanto sopradetto sono state già fatte in passato : alcune (poche) hanno avuto successo, altre purtroppo sono miseramente fallite, altre sono in difficoltà. Occorre andare ad analizzare i perché dei successi e degli insuccessi ,correggere gli errori e fare tesoro dei risultati positivi ed avere la volontà e la tenacia di raggiungere nuovi obiettivi.

 

§6-E’ anche il momento di rilanciare le opere pubbliche, purchè mirate a migliorare l’efficienza del sistema paese e ridurre i costi logistici per gli operatori e per i cittadini, anche se nel breve saremo costretti ad ulteriori aumenti del debito pubblico.E’ il momento di rilanciare un nuovo piano energetico che riproponga sia il nucleare sia le energie alternative. E’ il momento di tagliare gli sprechi e le spese inutili, di monetizzare i patrimoni immobiliari e demaniali che non danno sufficiente reddito alle casse statali. E’ il momento di essere più parsimoniosi, di ridurre le sperequazioni retributive e gli ultrastipendi e gli ultrabonus dei managers, che sono come schiaffi per chi non riesce ad arrivare alla fine del mese. Questo vale anche per le pensioni spropositate che ricevono parecchi illustri personaggi: occorre imporre dei limiti a tutto quello che è abnorme in un paese che sta attraversando enormi difficoltà; questo vale anche per la classe politica e per la cosiddette “caste”, che devono contenere le spese e privilegi (resto sempre stupito, quando apprendo di presidenti di regione che vanno in “missione” in Brasile..per di più nel periodo di carnevale…a far che non si sa…o in altri paesi esotici e poi limitano gli aiuti al tessuto industriale della propria regione) e concentrarsi invece su come migliorare la qualità ed aumentare la produttività dei servizi locali.
E, una volta per tutte, tagliamo il numero dei parlamentari, accorpiamo le regioni piccole e limitrofe, togliamo le provincie, eliminiamo gli enti parassitari che non producono valore, riduciamo anche il numero dei sindacalisti e sforbiciamo i privilegi della “caste”. Occorre ridurre le tariffe di luce, gas ed acqua e le accise sui carburanti e magari pagare minori dividendi per ridurre l’indebitamento delle aziende a controllo pubblico. Gli istituti di credito devono essere ricapitalizzati e il credito deve rifluire sull’industria e sul commercio a tassi più “accettabili”, ancora di più per chi investe nel sud-Italia. Deve intensificarsi la lotta all’evasione fiscale, alla contraffazione e all’abusivismo commerciale, deve continuare la lotta alla criminalità organizzata e intensificare la confisca dei beni derivanti da attività criminali.
Occorre essere selettivi sull’immigrazione dai paesi extra-comunitari, favorendo la regolarizzazione dei soggetti che riescono a trovare un posto di lavoro e accettano le regole e le leggi del nostro paese; dobbiamo invece ridurre la clandestinità che purtroppo scivola, in mancanza di un lavoro, nella criminalità.

 

 

sfera-di-cristallo.jpg§7-EDUCAZIONE

 

Mentre scrivevo i § 5-6 mi sono più volte domandato se stavo sognando. …..I HAD A DREAM…….
La domanda ovvia riguarda se esiste una base culturale operativa e non demagogica che possa affrontare un ventaglio cosi ampio di problematiche, se esiste una volontà politica ad affrontare le difficoltà e superare gli ostacoli che il “sistema “ opporrà al cambiamento.  Il primo grosso ostacolo è il basso livello di educazione del popolo italiano, sia in termini di educazione scolastica sia in termini di educazione civica.
Specialmente al sud la percentuale di scolarità è molto bassa in generale, così come la maggior parte degli studenti che hanno proseguito corsi di scuola superiore o universitari (e non fanno parte di quel 55% che si sono persi per strada) hanno conseguito o stanno per conseguire diplomi e/o lauree in maggior parte orientate verso un impiego pubblico ormai saturo e comunque da ridimensionare, mentre i diplomi/lauree scientifiche, cioè quelle più collegate all’industria e alla R&S, sono nel tempo diminuite percentualmente e in valore assoluto. Quanto sopra è riscontrabile anche nel centro e nord-italia con percentuali minori ma sempre significative.

I fattori “tasso di disoccupazione”, “reddito pro-capite” e “clima di sfiducia” sono i tre fattori, interconnessi fra loro, che hanno causato un progressivo degrado generazionale nella scuola e nel vivere civile.

Mi spiego meglio: un operaio o un impiegato negli anni 50 e 60, pur fra mille sacrifici, aveva l’orgoglio di far studiare i figli per dar loro la possibilità di avere una vita migliore della sua. In quegli anni il numero dei diplomati e dei laureati è stato in continuo aumento, le aziende crescevano in quantità e dimensioni e assumevano diplomati e laureati.
E c’era ancora, nella maggio parte dei casi, un sentimento patriarcale della famiglia e un riconoscimento dei sacrifici dei padri da parte dei figli.
Con la crisi di fine 70 inizio 80 le aziende hanno cominciato a ristrutturare, alcune grosse società a delocalizzare , nella scuola sono prevalsi sia l’appiattimento del merito sia il “30 politico”, spesso inutile perché anche chi riusciva a diplomarsi o laurearsi, pur di avere un lavoro, spesso accettava di andare in produzione come operaio. Sono aumentati i diplomi e le lauree più facili, orientate ad un mondo del lavoro saturo (insegnamento, scienze politiche, economia e commercio, giurisprudenza , ma anche medicina che facile non è,etc) dove le retribuzioni si sono appiattite e gli sviluppi di carriera ,salvo rare eccezioni, sono sempre più limitati e dilazionati negli anni.
Una buona parte dei figli degli artigiani sono stati iscritti agli istituti tecnici, dove l’obiettivo della maggioranza degli studenti è quello di raggiungere l’età dell’obbligo scolastico, anche senza conseguire il diploma, per poi affiancarsi e imparare il mestiere dei genitori. Forzando
il nostro punto di vista, possiamo considerare quest’ultima nota, tutto sommato, positiva.
La maggior parte dei giovani di oggi sono figli o nipoti della generazione del “68”, cresciuti nella cultura del “tutto dovuto” e dello “statalismo”. Di qui il confronto critico con un Stato che non è più e non potrà più essere diretto dispensatore di posti di lavoro.
Il sistema si è degradato , i valori della famiglia si sono dispersi, il dover ammettere di non aver realizzato gli ideali iniziali crea ulteriori frustrazioni, il confronto fra differenti classi sociali proposto quotidianamente dai media rafforza il rancore, sono tutti fattori che spingono i giovani ai margini del lecito, al bullismo, al sentirsi “protagonisti” in un mondo sempre più separato dal vivere civile, sempre più vicino al ghetto, alle “banlieu” degli immigrati, considerate come ultimo gradino, e forse anche disprezzate perchè sono proprio gli immigrati che hanno contribuito al mantenimento dell’occupazione negli ultimi anni.

 

 

§8-CONCLUSIONI

 

Ecco perché quando parlo di RILANCIO ECONOMICO rimango perplesso sulle possibilità di successo, a fronte del debole coordinamento industriale fra Confindustria e Governo,a fronte dei vincoli e paletti che impone la Comunità Europea a tutto vantaggio della Germania e dei paesi del centro-europa, a fronte dell’incomprensibile comportamento di un sindacato arcaico, politicizzato e miope nella visione dello sviluppo,a fronte di governi che non riescono ad uscire dal velleitarismo demagogico,invece di affrontare le varie problematiche con tenacia e perseveranza, a fronte di un sistema scuola/università che in parte si contrappone ad una necessaria modernizzazione.
L’estensione della crisi finanziaria all’economia reale ha trovato il nostro paese, industrialmente parlando, già sulle ginocchia, con molte aziende più portate a delocalizzare la produzione in altri paesi invece di cercare  soluzioni per uno sviluppo all’interno dei confini nazionali.
Solo il rilancio della R&S e il dominio delle tecnologie possono ridare vitalità alle aziende nazionali,creando le premesse per nuovi investimenti e per nuovi posti di lavoro; Governo, Confindustria e Sindacati devono operare all’unisono in tale direzione e mettere in atto tutte le altre iniziative elencate nei § 5 e 6 e altre ancora che probabilmente mi sono dimenticato nella penna.

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