La tomba del capitalismo o evoluzione del sistema economico?

Scritto il alle 12:19 da Danilo DT

Quanto sta accadendo rappresenta secondo me l’epilogo di un modello economico, un modello fallimentare che era destinato, col tempo, a soccombere. Un modello di capitalismo che ora dovrà modificarsi, rinnovarsi, evolversi. Ma prima dovrà spurgare tutti gli eccessi di tanti anni di finanza spericolata.
Il mondo sta per finire? No, il mondo non finirà, ma cambierà, e tantissimo. In particolar modo cambierà il ruolo dei vari stati, delle varie aree geografiche. Cambieranno i protagonisti, cambieranno i peso economici.
Chi è causa del suo mal, pianga se stesso.
Nel frattempo, prima di approfondire (in futuro!) tutte queste tematiche, vi propongo il pensiero di Nouriel Roubini su questa tematica.

NEW YORK – La massiccia volatilità e l’intensa correzione dei prezzi azionari, che stanno colpendo in questi giorni i mercati finanziari globali, indicano che la maggior parte delle economie avanzate è sull’orlo di una doppia recessione. La crisi economica e finanziaria causata dall’eccessivo indebitamento del settore privato e dalla leva finanziaria ha portato a un nuovo pesante indebitamento del settore pubblico volto a evitare una Grande Depressione. Ma la relativa ripresa è stata anemica e al di sotto della media nelle più importanti economie mondiali, a causa dei dolorosi interventi di deleveraging.


Ora il rincaro dei prezzi relativi al petrolio e alle materie prime, le rivolte nel Medio Oriente, il terremoto e lo tsunami del Giappone, le crisi di debito nell’Eurozona, i problemi fiscali in America (e adesso il declassamento del rating) hanno provocato una massiccia avversione al rischio. A livello economico, gli Stati Uniti, l’Eurozona, il Regno Unito e il Giappone stanno sprecando denaro. Anche i mercati emergenti in rapida crescita (Cina, Asia emergente e America Latina) e le economie orientate all’export che si affidano a questi mercati (Germania e Australia ricca di risorse) stanno registrando intense fasi di contrazione.


Fino allo scorso anno i policymaker sapevano come scendere in campo per innescare una reflazione e far ripartire l’economia. Stimoli fiscali, tassi di interesse quasi inchiodati a zero, due cicli di “quantitative easing”, titoli di debito tossici, migliaia di miliardi di dollari spesi in pacchetti di salvataggio e liquidità fornita a banche e istituti finanziari: le hanno provate tutte. Ora sono a corto di munizioni.
La politica fiscale rappresenta attualmente un freno per la crescita economica sia nell’area euro che nel Regno Unito. Anche negli Usa, i Governi statali e locali, e ora il governo federale, stanno tagliando la spesa e riducendo i sussidi relativi al welfare. E presto aumenteranno le tasse.


Un altro ciclo di salvataggi bancari è inaccettabile dal punto di vista politico e irrealizzabile a livello economico: gran parte dei Governi, soprattutto in Europa, sono talmente in crisi da non potersi permettere pacchetti di salvataggio; il rischio sovrano sta infatti alimentando i timori sullo stato di salute delle banche europee, che detengono gran parte dei titoli di stato ormai in bilico.


Anche la politica monetaria non può essere d’aiuto. L’allentamento monetario è vincolato all’inflazione sopra target registrata nell’Eurozona e nel Regno Unito. Probabilmente la Federal Reserve americana avvierà il terzo ciclo di quantitative easing (QE3), ma siamo ormai fuori tempo massimo. Il QE2 da 600 miliardi di dollari e i tagli previsti per le tasse e le spese sociali nell’ordine di mille miliardi di dollari hanno portato in un trimestre a una crescita che sfiora appena il 3%. Poi la crescita è crollata al di sotto dell’1% nella prima metà del 2011. Il QE3 sarà più ridotto e non riuscirà ad innescare la reflazione e a rilanciare la crescita.

Il deprezzamento valutario non è in opzione per le economie avanzate: necessitano tutte di una moneta più debole e di una migliore bilancia commerciale per rilanciare la crescita, ma entrambe le soluzioni non si possono realizzare simultaneamente. Fare affidamento sui tassi di cambio per influenzare le bilance commerciali è un gioco a somma zero. Le guerre valutarie si stagliano all’orizzonte, con il Giappone e la Svizzera in prima linea per indebolire i propri tassi di cambio. Gli altri seguiranno a ruota.


Nel contempo rileviamo come nell’Eurozona, I
talia e Spagna siano sul punto di perdere l’accesso al mercato, mentre le pressioni finanziarie cominciano a farsi sentire anche in Francia. Ma Italia e Spagna sono entrambe troppo grandi per fallire e troppo grandi per essere salvate. Per il momento, la Banca centrale europea acquisterà alcuni dei loro bond prima di sfruttare il nuovo fondo Efsf (European Financial Stabilization Facility) dell’Eurozona. Ma, se l’Italia e/o la Spagna perdessero l’accesso al mercato, il fondo Efsf da 440 miliardi di euro (627 miliardi di dollari) potrebbe esaurirsi entro la fine dell’anno o l’inizio del 2012.

A meno che l’Efsf non venga triplicato – una mossa cui la Germania si oppone con decisione – l’unica opzione a disposizione sarebbe la ristrutturazione ordinata ma coercitiva del debito italiano e spagnolo, come è successo per la Grecia. La ristrutturazione coercitiva dei titoli di debito non garantiti, detenuti dalle banche insolventi, sarebbe il passo successivo. Sebbene il processo di deleveraging sia appena iniziato, le riduzioni del debito diverranno necessarie se i paesi non riusciranno a crescere, a risparmiare o a tirarsi fuori dai problemi debitori.


Sembra quindi che Karl Marx avesse ragione nel sostenere che la globalizzazione, l’intermediazione finanziaria fuori controllo e la ridistribuzione del reddito e della ricchezza dal lavoro al capitale potrebbero portare il capitalismo all’autodistruzione (la sua idea che il socialismo sarebbe stato migliore si è invece rivelata errata). Le aziende stanno tagliando posti di lavoro a causa di un’insufficiente domanda finale. Ma tagliare posti di lavoro riduce il reddito dei lavoratori, aumenta la diseguaglianza e diminuisce la domanda finale.


Le recenti manifestazioni di massa, dal Medio Oriente a Israele fino al Regno Unito, e la crescente paura in Cina – e ben presto in altre economie avanzate e nei mercati emergenti – sono tutte spinte dalle stesse problematiche e tensioni: diseguaglianza, povertà, disoccupazione e disperazione. Anche i ceti medi del mondo stanno provando le ristrettezze economiche legate alla riduzione di reddito e opportunità.
Per consentire alle economie orientate al mercato di funzionare nel modo corretto, dobbiamo ritornare al giusto equilibrio tra mercati e fornitura di beni pubblici. Ciò significa abbandonare il modello anglosassone del laissez-faire e dell’economia-vodoo e il modello dell’Europa continentale di welfare state (o stato del benessere) spinto dal deficit. Entrambi i modelli sono risultati fallimentari.


Il giusto equilibrio richiede oggi la creazione di posti di lavoro, in parte mediante nuovi stimoli fiscali volti a incentivare le infrastrutture. Serve altresì una maggiore tassazione progressiva, maggiori stimoli fiscali nel breve periodo attraverso una disciplina fiscale nel medio e nel lungo periodo, l’appoggio di un prestatore di ultima istanza da parte delle autorità monetarie per prevenire rovinose corse agli sportelli, una riduzione del peso debitorio per le famiglie insolventi e altri agenti economici in difficoltà, nonché supervisione e regolamentazione più severe per combattere un sistema finanziario fuori controllo, mettendo fine a banche troppo grandi per fallire e a imprese oligopolistiche.


Nel tempo le economie avanzate dovranno investire in capitale umano, competenze e reti di sicurezza sociale per aumentare la produttività e consentire ai lavoratori di competere, essere flessibili e vivere bene in un’economia globalizzata. Come negli anni 30, le alternative sono stagnazione, depressione, guerre valutarie e commerciali, controlli sui capitali, crisi finanziarie, insolvenze sovrane, instabilità sociale e politica.


Nouriel Roubini è presidente del Roubini Global Economic, professore di economia presso la Stern School of Business della NYU e co-autore del libro Crisis Economics.


Source: Project Syndacate

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DT

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19 commenti Commenta
ottofranz
Scritto il 19 Agosto 2011 at 17:45

Capitalismo ed evoluzione economica

E tutti e due no?

In un certo senso nell’Italia di Enrico mattei già c’eravamo arrivati

Uno Stato attivo, competitor ad armi pari con imprenditori. Un parametro che definisca costi prezzi e standard qualitativo , e che costituendo concorrenza faccia da calmiere e da riferimento per il mercato .

Fare un lavoro statale vorrebbe dire lavorare per Aziende dello Stato in diretta competizione col mercato.

E’ del tutto chiaro che questo vorrebbe dire necessariamente una flessibilità del mercato del lavoro ed una meritocrazia all’interno del managment che per il mercato del lavoro statale sono discorsi da Marziani.

Ma sarebbe un ottimo sistema per rivedere il lavoro in crescita ed il calo della disoccupazione Questo naturalmente in un mondo dove si lavori realmente per produrre beni reali.

Non beni finanziari costruiti sul nulla dalla finanza creativa .

Va da se che più si osserva e più diventa verosimile pensare che la finanza creativa non sia arrivata li per caso, ma sia stata una ben definita arma di distruzione di massa che oggi comincia a vedere quali effetti abbia prodotto

Scritto il 19 Agosto 2011 at 18:55

ottofranz,

Assolutamente si… Evoluzione del capitalismo. Mettiamola sotto questi termini.Almeno sotto il mio punto di vista. 🙂

furious
Scritto il 19 Agosto 2011 at 20:23

Assolutamente daccordo in tutti i punti, del resto mi sembra che anche su intermarket già si era parlato dell’evoluzione del capitalismo sotto questo punto di vista.
Aggiungiamo al quadro catastrofico ma assolutamente realista dipinto sopra, il fatto che le giovani generazioni dei paesi avanzati sono ultraviziate, che la mentalità in molti paesi è rimasta piuttosto arretrata, quindi c’è difficoltà proprio a sintonizzarsi su questo “nuovo mondo precario”.
Il capitalismo ha portato benessere negli scorsi anni, ma ha impigrito la popolazione, col risultato che è dura far ritornare la gente a lavorare sodo.

Quello di cui non si è mai parlato è una “partecipazione collettiva aziendale” agli utili dell’azienda, intendo dire che secondo me nel futuro bisognerà dare ai dipendenti (io non sono un imprenditore comunque) solo un minimo di salario fisso + molte percentuali a seconda degli obiettivi raggiunti.
Bisognerà essere molto flessibili, ma questo non solo da parte del dipendente: anche gli imprenditori dovranno accettare il fatto di dare buone fette dei loro guadagni ai dipendenti, ovviamente questo solo quando l’azienda “va bene”.
Capisco che il concetto può sembrare assurdo, ma vedrete che ben presto ci si arriverà, vedo già come si sta trasformando il mondo del lavoro sotto i miei occhi, potrebbe essere una soluzione davvero innovativa ma salutare se ben applicata.

grande mur
Scritto il 19 Agosto 2011 at 22:24

Forse non vi e’ chiaro un concetto: In italia la partecipazione agli utili aziendali e’ stata da sempre osteggiata non tanto dai sindacati (anche se potrebbe sembrare naturale) quanto piuttosto da confindustria stessa! Far partecipare un dipendente agli utili aziendali, significa , per forza di cose, chiamarlo in causa anche sulle scelte dirigenziali che l’azienda dovra’ adottare (il concetto di dare un salario minimo + alte percentuali _solo_ quando l’azienda va bene, si applica _solo se_ il dipendente puo’ dare il suo contributo nello scegliere il business e la strategia aziendale), e questo e’ quello che la mediocre classe imprenditoriale italiana NON VUOLE! In italia, che che se ne dica, vige ancora la mentalita’ del “padrone” e dell’ “operaio”. Io sono il padrone e comando, faccio quello che voglio, tu sei il mio operaio e lavori per me. I padroni non ammettono che i dipendenti possano mettere bocca sulla loro azienda. Ci vuole una vera rivoluzione in italia, e non pacifica.

ottofranz
Scritto il 20 Agosto 2011 at 07:30

grande mur@finanzaonline,

forse non ti è chiaro un detto:-“Ofelè, fa ‘l to mestè”

grande mur
Scritto il 20 Agosto 2011 at 09:30

ottofranz:
grande mur@finanzaonline,

forse non ti è chiaro un detto:-”Ofelè, fa ‘l to mestè”

Che in italiano significa?

84leonardo
Scritto il 20 Agosto 2011 at 09:51

http://www.ilsole24ore.com/art/finanza-e-mercati/2011-08-18/attacco-rating-cina-221113.shtml?uuid=Aa3FzJxD

Gli americani sono permalosi si muovono a dare contro alle loro agenzie solo quando queste le riguardano da vicino. e prima?

idleproc
Scritto il 20 Agosto 2011 at 11:33

Il problema con le merci è che ci deve essere sempre qualcuno che le compra.
E’ l’unico modo di valorizzare il capitale, incrementarlo e utilizzarlo per nuovi investimenti.
Sappiamo tutti che il sistema capitalistico è soggetto a cicli economici. Per un pò hanno tirato avanti espandendo il debito pubblico e sucessivamente “liberalizzando” a livello globale la circolazione dei capitali e delle merci per far ripartire l’accumulazione. Il risultato è stato la sincronizzazione dei cicli a livello globale e si è persa la possibilità tecnica di recessioni ed espansioni pilotate sulle due sponde dell’Atlantico. Ora, a mio giudizio, siamo in una bella crisi di sovrapproduzione dell’economia reale a livello globale accompagnata al seguito dalla costruzione di un mare di profitti fasulli a livello finanziario totalmente privi di un corrispettivo valore nell’economia reale. Questo per due ragioni: la tecnologia creativa finanziaria ha permesso grazie all’espansione del credito e del debito pubblico di valorizzare virtualmente i capitali in fuga dall’economia reale per la caduta dei profitti (unico luogo dove si produce valore), l’altra ragione è la crisi effettiva del’economia reale.
Non la vedo come la “tempesta perfetta”, il sistema capitalistico la risolverà in modo tradizionale tramite il mercato: distruggendo i valori fittizi a livello finanziario e quelli altrettanto fittizi investiti nell’economia reale in sovrapproduzione. Dopo un quasi sicuro disastro sociale a livello planetario, riprenderà la sua corsa verso una nuova fase di allargamento della base produttiva e di espansione.
Oltre ad un’incremento ulteriore del livello di concentrazione del capitale e alla scomparsa di quella che noi oggi chiamiamo “classe media” alla quale quasi tutti apparteniamo. Piccoli o medi imprenditori compresi. Comanderà la finanza “in poche mani” che sarà un tutt’unico con le multinazionali oligopoliste. La Democrazia Liberale che trova la sua base economico-sociale nella libertà economica dell’individuo diventerà apparenza. Già lo vediamo nelle presidenze US, sempre più simili a uomini di paglia.
Il nostro problema attuale è “il disastro sociale”, dato che non siamo omini verdi che vivono su di un altro pianeta come osservatori distaccati.
Il “disastro sociale” ha anche alcune non secondarie implicazioni ben esemplificate come “inizio” nelle attività economiche neocoloniali in Nord Africa spacciate come “liberazioni democratiche” e a quelle interne ad agglomerati nazionali stile europa.

lampo
Scritto il 20 Agosto 2011 at 11:45

ottofranz: Capitalismo ed evoluzione economica
…. Fare un lavoro statale vorrebbe dire lavorare per Aziende dello Stato in diretta competizione col mercato. E’ del tutto chiaro che questo vorrebbe dire necessariamente una flessibilità del mercato del lavoro ed una meritocrazia all’interno del managment che per il mercato del lavoro statale sonodiscorsi da Marziani.

E’ proprio qui il tallone d’achille. Attualmente, per esperienza personale, nel privato c’è poca meritocrazia. In pratica, se mi permettete, in questi ultimi dieci anni nelle aziende italiane per rimanere competitivi hanno lasciato comandare i ragionieri: l’importante era tagliare i costi (dei dipendenti). Quindi era meglio tagliare un dipendente spesso anziano con esperienza ed assumere uno giovane senza esperienza (e spesso senza voglia di fare) per far quadrare i conti piuttosto andare ad analizzare le singole professionalità e tagliare i rami marci.
Ovvio che al giorno d’oggi tale sistema adottato ha comportato ancora minore produttività e perdita di competitività delle aziende, spesso a causa della perdita della professionalità che queste persone avevano (e che sono andate alla concorrenza oppure hanno aperto un’azienda in proprio facendo concorrenza direttamente).

Per quanto riguarda il pubblico è utopia! La maggioranza di chi ci lavora, non ha mai lavorato in un’azienda privata per cui non sa neanche cosa possa significare efficienza, produttività e autogestione! La crescita professionale avviene essenzialmente per anzianità o perché vai d’accordo con il politico di turno (assolutamente ininfluente la professionalità acquisita).
Dovrebbero mettere tra i requisiti per partecipare ad un concorso pubblico o comunque fare un lavoro statale, quello di aver lavorato per un totale di almeno cinque anni nel privato.
Per cui su questo fronte… secondo me non c’è speranza… ed il personale assunto con i concorsi (non truccati), visto che ha più professionalità continua a svolgere il lavoro degli altri… che ne hanno di meno e spesso non sanno ancora mandare via una semplice e-mail o impostare una cella di un foglio elettronico, pur avendo fatto una miriade di corsi di aggiornamento (spesso fatti apposta affinché non impari… così te ne fanno fare altri…).

idleproc
Scritto il 20 Agosto 2011 at 12:20

lampo,

Posso confermare sulla cosiddetta “efficienza” di certo “privato” dei “ragionieri”, ho visto direttamente una multinazionale US ad alta tecnologia far fuori cervelli e tecnici produttivi sia a livello di progettazione che assistenza alla clientela tagliandosi le OO da sola. La Casta dei Manager fuori dalla produzione e dalla realtà non è un’invenzione giornalistica. Efficienza, buon senso, collaborazione col lavoro anche di reciproco sostegno economico, possono trovarsi oggi solo nella piccola e media impresa destinate ad essere schiacciate dal processo di accumulazione e concentrazione. E’ chi controlla il mercato anche finanziario che fa i prezzi.
Per quanto riguarda il pubblico è difficile pensare che qualcosa che è stato costruito per finanziare l’acquisto di merci e “sostenere” l’economia, possa essere efficiente e ad alto contenuto professionale. Quando vale, vale per pochi, che hanno, mangiandosi il fegato, la volontà e determinazione individuale nel farlo. Bisognerebbe cambiarne la classe dirigente e tenerla sempre sott’occhio.

ottofranz
Scritto il 20 Agosto 2011 at 14:20

lampo,

idleproc@finanza,

perfettamente in linea .

Infatti basterebbe lasciar parlare i risultati e cambiare chi non produce effetti positivi.

Ma chi fa le scelte a fronte di una remunerazione adeguata deve essere responsabile e pagare di persona gli errori

Nel pubblico come nel privato.

Ma darei la priorità al Pubblico, perchè come ho sottolineato proprio il Pubblico ha la funzione di parametro.

Va da se che non mi riferisco a quanto c’è di attuale , ma ad un eventuale futuro.

Poi, sul fatto che siano tutte solo belle parole…purtroppo concordo.

lampo
Scritto il 20 Agosto 2011 at 16:09

idleproc@finanza,

ottofranz,
Mi fa piacere che siete in linea con la mia “visione” 😉

Mi sbilancio aggiungengo che invece nel pubblico, entro massimo uno o due anni, arriveremo all’assurdo di un piano di assunzioni a raffica (praticamente senza selezione professionale) proprio per finanziare l’acquisto di merci e “sostenere” l’economia oltre che per mantenere la pace sociale… di tutti quelle famiglie i cui componenti perderanno il posto di lavoro in tale periodo (con la buona pace di Brunetta… che di economia ed incentivazione della produttività ed efficienza nel pubblico ne capisce veramente poco!).
Anche perché rimango molto scettico sugli effetti della sistemazione dei conti italiani con le recenti finanziarie: secondo me avranno un effetto recessivo invasivo su quella timida e fragile ripresa economica che era sbocciata… e che si stava di fatto già appassendo (leggendo i dati economici) prima dell’intervento delle due finanziarie (luglio ed agosto) e delle prossime (penso almeno ancora due interventi) prima della fine dell’anno.
Ovviamente spero di sbagliarmi.

lampo
Scritto il 20 Agosto 2011 at 16:13

Ripeto, a rischio di diventare noioso, che per rilanciare questo paese, bisogna ripartire dall’investimento nell’educazione e quindi nella scuola. Ovviamente anche nella ricerca, intesa come un connubio fra le varie eccellenze universitarie e le imprese che vogliano reinvestire i loro utili per creare brevetti, magari creando dei centri nazionali che ottengano la gran parte dei finanziamenti statali vigenti, che invece vengono dati a pioggia ai soliti “baroni” universitari, incentivando la fuga dei veri cervelli.

ottofranz
Scritto il 20 Agosto 2011 at 16:57

Devo dirvi che una cosa che ho notato, e che è passata sotto silenzio ,è che nella cattura sbandierata di uno dei boss latitanti sembra sia saltato fuori che il tizio avesse lamentato difficoltà economiche atte a sostenere il sistema.

Si riferiva allo stipendio che viene erogato alle famiglie di chi sta in carcere.

Se questo fosse vero e la crisi economica dovesse in qualche modo creare turbative al “Sistema”, il nostro Sud potrebbe vedere la “amebizzazione” dello stesso, con grossi rischi di vedere guerre di quartiere.

A volte nell’osservare il macro si potrebbe perdere di vista il micro. Un problema in più da risolvere?

paolo41
Scritto il 22 Agosto 2011 at 08:41

Le considerazioni di Roubini ti lasciano l’amaro in bocca non tanto per il quadro drammatico che dipinge (che, comunque, non prende certo in contropiede né Dream né i “fedeli” di questo blog), quanto per la carenza di analisi per come siamo arrivati a questo quadro e per la generalità con cui descrive le soluzioni per uscirne.
E, se non si analizzano le cause, è difficile identificare le soluzioni!!!
Scrive Roubini:
“Per consentire alle economie orientate al mercato di funzionare in modo corretto, dobbiamo ritornare al giusto equilibrio fra mercati e fornitura di beni pubblici. Ciò significa abbandonare il modello anglosassone del lassez-faire e dell’economia-wodoo e il modello dell’Europa continentale di welfare state spinto dal deficit. Entrambi i modelli sono risultati fallimentari.”
Se, con il “lassez-faire”, sottintende l’avvenuta abdicazione di una qualsivoglia politica economica da parte degli stati occidentali a favore delle multinazionali e del sistema finanziario, non si può che essere d’accordo.
Si sono verificate due “deregulations” che hanno spinto il “capitalismo” oltre ogni limite o, meglio ancora, a limiti tali che l’intervento degli stati per riequilibrare la situazione risulta arduo se non impossibile.
La prima grossa miopia è stata la globalizzazione e la delocalizzazione sfrenata delle multinazionali che, detto in poche parole, hanno, con la scusa o attenuante di conquistare nuovi mercati (e di non pagare tasse in Usa, detto per inciso), trasferito posti di lavoro in aree a più basso costo per unità di prodotto. Ciò facendo ha comportato di autorizzare paesi asiatici e in particolare la Cina a entrare nell’ambito del WTO. Alla reimportazione dei prodotti delle multinazionali si sono affiancati naturalmente i prodotti cinesi.
E’ una grossa stortura e, volendo, un paradosso, perché ampliando l’analisi ci accorgiamo che il mondo occidentale è tornato ad accettare lo “schiavismo”, perché permette, con un cinismo solo dettato dall’egoismo e dal profitto ad ogni costo, che tutte le regole che hanno contraddistinto la difesa di alcuni crismi del mondo operaio occidentale (con una presunta falsariga para-comunista) vengano distrutte da un regime che continua a professarsi fondamentalmente comunista.
Anche la seconda “deregulation” è arcinota; il mondo della finanza è diventato incontrollabile, ha creato un debito più grosso della torre di Babele, lo ha nascosto nelle pieghe dei bilanci, lo ha scaricato sugli stati e sui cittadini. Si blatera a destra e a sinistra di imporre nuove regole, nuovi controlli, nuove limitazioni, ma le lobbies della finanza sono forti come quelle delle multinazionali e insieme controllano, almeno finora, l’environment mondiale (cioè fino a quando la Cina lo permetterà).
Fanno un po’ ridere, al confronto dei veri problemi, due parvenues nel mondo della finanza, come Merkel e Sarkozy, che, solo per fare teatrino, ripropongono la tassazione (Tobin tax) sulle transazioni finanziarie, ignorando ( e qui si evidenzia la loro superficialità) che il 70% delle transazioni sono fatte fuori dai mercati regolamentati.
Certo che le proposte di Roubini sono condivisibili, basta trovare una volontà politica …che le applichi, ma non illudiamoci che siano la panacea dei problemi dell’occidente. Quanto agli investimenti in infrastrutture è già problematico attuarli, nell’attuale congiuntura, per i paesi che sono meno indebitati, si può immaginare come sia difficile per l’Italia che, oltre ai problemi del debito, è contraddistinta da innumerevoli “movimenti del no per principio”. Comunque gli “eurobonds” sarebbero un notevole contributo a proposito.
Ma, innanzitutto occorrerebbe una unione di intenti che purtroppo non c’è, perché continuano a prevalere gli egoismi nazionalisti (guardate in piccolo che casino, innescato dalla Finlandia, sta saltando fuori sulle garanzie da dare al prestito alla Grecia).
Sia in Usa che in Europa si stanno avvicinando diversi appuntamenti “politici”, il che rende praticamente impossibile una minima soluzione che abbia il crisma “bipartisan” in Usa o della “comunità europea” (europea ho preferito scriverlo con la lettera… minuscola) nel nostro continente.
I nostri media riportano sempre delle alte percentuali di disoccupazione (e di non far niente) della gioventù italiana. Ma le stesse percentuali le troviamo in UK ( dove sfasciano tutto), in Francia (dove è pericoloso girare nelle banlieue), in Germania (dove bruciano, in segno di avvertimento e protesta, le Mercedes e le BMW), in Spagna gli indignados….
C’è un senso di disagio in giro che si taglia con il coltello; non credo che i prossimi mesi saranno esilaranti.
Conclude Roubini (tanto per non smentirsi) : “Come negli anni 30, le alternative sono stagnazione, depressione, guerre valutarie e commerciali, controlli sui capitali, crisi finanziarie, insolvenze sovrane, instabilità sociale e politica”.
Se tanto mi dà tanto, ne vedremo delle belle….

ottofranz
Scritto il 22 Agosto 2011 at 09:06

paolo41,

Ullallà, questo tuo commento da solo varrebbe la veste di un altro post.

Aggiungo solo che mi sto convincendo sempre di più che uno Stato abbia necessità di essere presente in tutti i campi in diretta concorrenza col mercato

Questo per una funzione di parametro e per calmierare i prezzi evitando storture che si vengono a creare quando nascono cartelli.

Abbiamo le stazioni di servizio Agip. Perchè non svolgono questa funzione? Perchè non creare una catena di supermercati dello Stato che commercializzino solo prodotti italiani possibilmente a km zero?

La cosa è ben visibile in agricoltura e e nell’allevamento e successiva macellazione del bestiame. L’argomento richiederebbe un post specifico.

Oltretutto vorrebbe dire creare occupazione e businnes positivo per lo Stato. Naturalmente richiederebbe una meritocrazia all’interno dell’apparato che attualmente è impensabile

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