in caricamento ...
ITALIA: Per garantirci un futuro, occorre CAMBIARE!
La generazione dei trentenni – quarantenni è assolutamente fondamentale per l’economia di questo nostro paese. Se la perdiamo, finiamo nel baratro.
Questo articolo di Irene Tinagli merita tutta la mia considerazione. Innanzitutto perché (più o meno) faccio parte proprio di questa generazione e poi perché, nelle sue conclusioni, vengono dette cose che condivido in toto. Bisogna cambiare. Bisogna dare un futuro a questo paese e a chi lo abita. Ma se non si fa subito, si entrerà in un circolo vizioso che ci porterà all’autodistruzione. Buttateci un occhio e …se vi va, fatemi sapere che ne pensate.
Da tempo si dibatte sulle difficoltà dei trentenni e quarantenni italiani, quelli che negli Anni Ottanta, da ragazzini, avrebbero dovuto diventare famosi, fare scoperte mirabolanti e fondare aziende di successo, e che invece si sono scontrati con i problemi di un paese fermo per quindici anni in cui le opportunità si sono sempre più affievolite.
A tal punto che oggi questa ex generazione di «saranno famosi» viene da alcuni considerata una generazione «perduta», per la quale al massimo possiamo cercare di limitare i danni riponendo le nostre speranze sulle generazioni più giovani. Ma è davvero così? I trentenni e quarantenni italiani sono davvero un vuoto a perdere per il nostro Paese?
Sulla Rete e su un blog de La Stampa online ne è nato un acceso dibattito, in cui un gruppo di diretti interessati, attraverso un «manifesto della generazione perduta», rivendicano un ruolo più attivo nella vita del paese, vogliono essere una risorsa, non un fardello. Ma di fatto queste persone sono già una risorsa importante.
E’ vero che questa generazione è stata quella che più di altre ha pagato l’immobilismo del paese, ignorata e sottovalutata da una classe politica e dirigente sempre più anziana e chiusa in se stessa. Ma il fatto che sia stata ostacolata ed ignorata non significa che non sia una componente fondamentale della vita del paese, che sta contribuendo in modo cruciale alla sua tenuta economica, sociale e demografica.
Si tratta infatti di tredici milioni di italiani in età tra i 30 e 44 anni, due terzi dei quali lavora, costituendo quasi la metà della forza lavoro italiana. Una fascia di età che ha un tasso di occupazione tra i più alti di tutta la popolazione, basta pensare che solo il 55% degli italiani tra i cinquantacinque e i cinquantanove lavora, una percentuale che scende al 20% per i sessantenni e all’8% per gli over 65. Senza contare che è tra i trenta-quarantenni che si formano le nuove famiglie e nascono i bambini che saranno l’Italia di domani. Sono una parte importante del nostro paese, fatta di cittadini che si stanno impegnando con fatica ma anche con determinazione e dignità. Cittadini mediamente molto più istruiti della generazione dei loro genitori (e dei politici che li rappresentano), con esperienze interessanti alle spalle, non novellini come a volte vengono dipinti. Si tratta infatti di persone entrate nel mercato del lavoro tra la metà degli Anni Novanta e i primi anni del Duemila, quando ancora la crisi non era quella di oggi. E anche se i loro contratti erano già quelli atipici che tolgono sicurezze sociali e prospettive di pensioni decenti, hanno però maturato esperienze e competenze che cercano di applicare nei loro lavori. Lavori che coprono tutto lo spettro di attività produttive e di servizi del nostro paese.
Sono loro i periti e gli artigiani che mandano avanti le migliaia di piccole e medie imprese che fanno il «made in Italy». Sono gli architetti, gli avvocati o gli ingegneri che per stipendi magrissimi mandano avanti i grandi studi i cui vecchi fondatori girano in Porsche. Sono i giornalisti che tengono in piedi molte nostre testate grazie ad un lavoro di qualità pagato una minima parte di quello dei «grandi vecchi». Sono i ricercatori che consentono ad interi dipartimenti universitari di resistere. Sono i volenterosi che gestiscono le migliaia di cooperative che con costi minimi erogano servizi per conto di comuni, province e regioni, consentendo risparmi che gli enti locali magari spendono per finanziare opere fatte da amici costruttori o per ripianare i buchi creati nelle aziende pubbliche dagli incompetenti messi lì con logiche politiche. E sono sempre loro, tutti loro, che per anni hanno pagato tasse crescenti sulle loro forme contrattuali atipiche già molto penalizzanti per consentire alle generazioni precedenti di andare in pensione a cinquant’anni o anche meno.
Pensare che questi milioni di lavoratori siano «perduti», come se il contributo che quotidianamente danno o provano a dare a questo paese sia inutile, è ingeneroso e, soprattutto, non risponde alla realtà. E sperare di limitare i danni non è l’obiettivo che dovremmo porci né quello che gli stessi interessati chiedono. Basta leggere i loro blog, i commenti sui forum online, per capire che una buona parte di questi italiani non chiede né compassione né assistenza, ma un riconoscimento e un’opportunità, un obiettivo collettivo che sia per loro una motivazione a non mollare. Che non significa raccontare favole, ma avere il coraggio di impegnarsi tutti per cambiare questo paese ora, subito.
E per fare questo non servono sussidi, serve una politica per la crescita vera, che sbloccando monopoli, eliminando clientele, privilegi e sprechi, introducendo una vera cultura della trasparenza e della valutazione dei risultati, liberi spazio e risorse per chi davvero ha energia e competenze, per chi ancora ha voglia di investire in questo paese, giovani e meno giovani, italiani e stranieri. Politiche di questo genere, se fatte in modo incisivo e tempestivo – senza i tentennamenti che purtroppo abbiamo visto spesso su questi temi – potrebbero creare delle opportunità e tenere vive delle speranze ragionevoli anche per loro. Insomma, il nostro Paese e i nostri governanti dovrebbero avere più fiducia nei trentenni e quarantenni italiani e sulle opportunità che potrebbero avere davanti. E rendersi conto che se sono perduti loro, lo è tutto il Paese.
Source: La StampaEssendo parte in causa, preferisco non sbilanciarmi. Però quante di queste verità oggi non vengono prese in considerazione? E quali prospettive abbiamo davanti? Cosa avremo tra 10-20 anni tra le mani? E di tutti i soldi che spendiamo e abbiamo speso per PAGARE ricche pensioni date a lavoratori che hanno esercitato attività professionali per nemmeno 10 anni, ci verranno mia restituiti un giorno in servizi di qualsiasi tipo o genere?
Ecco, questo è quanto oggi abbiamo potenzialmente in mano: un pugno di mosche. Abbiamo pagato gli errori e gli eccessi di chi stava prima di noi, pagheremo ancora di più in futuro per poi restare senza una prospettiva, una pensione, una certezza. E magari senza un lavoro.Vi sembra giusto?
DT
Non sai come comportarti coi tuoi investimenti? BUTTA UN OCCHIO QUI | Tutti i diritti riservati © | Grafici e dati elaborati da Intermarket&more su databases professionali e news tratte dalla rete | NB: Attenzione! Leggi il disclaimer (a scanso di equivoci!)
Condivido l’articolo di Tenagli (anche se La Stampa è un giornale che leggo raramente perché non condivido la sua linea editoriale, se c’è effettivamente…).
Nel contenuto non è stato menzionato lo scontro fra tale generazione… e quella (più vecchia) che manovra la stanza dei bottoni, spesso senza conoscere e neanche interessarsi del loro funzionamento e soprattutto le ripercussioni che può causare una manovra sbagliata. Tanto alla fine, mal che vada, c’è sempre qualcuno su cui scaricare la colpa e soprattutto i costi… compresa la generazione indicata, visto che hanno creato una rete di contatti (stampa compresa) che li protegge in caso di errori.
Anch’io faccio parte come età della generazione menzionata (come ben sai DT), e comprendo bene il desiderio di meritocrazia e di riconoscimento (almeno morale) delle qualità e capacità dimostrate sul campo, nel lavoro e via dicendo, che invece spesso non vengono riconosciute, perché costituiscono la linfa dei profitti di quelle poche persone che dominano, con la loro sfera di interessi e “collaborazioni” il panorama italiano (purtroppo anche in molti settori imprenditoriali che non lasciano spazio ai nuovi arrivati, danneggiandoli rapidamente, spesso con la complicità della burocrazia).
A chi fa parte di questa generazione posso solo consigliare di non abbattersi, di non sprecare il proprio tempo libero e perseverare aumentando il più possibile le proprie conoscenze, cultura, manualità e relazioni… visto che sono tutti aspetti che tornare utili in ogni momento. Per sbarcare il lunario nei momenti di difficoltà oppure per acquisire la capacità necessaria a riconoscere quale sia un’opportunità valida da prendere al volo, per mettere in pratica la propria capacità imprenditoriale.
Capacità d’altronde già acquisita, essendo stati per tanti anni imprenditori di se stessi, ovvero l’unico modo per sopravvivere, almeno per chi non ha avuto la fortuna di avere la conoscenza o raccomandazione giusta.
Peccato che molti appartenenti a questa generazione, se hanno avuto occasione di andare all’estero, sono scappati e hanno fatto fruttare altrove le loro capacità (generando una grave perdita per la nostra industria, innovazione e ricerca).
Aggiungo che si è trattato di una scelta giusta (almeno con il senno del poi), visto l’immobilismo dell’attuale classe dirigente, a parte il costante avanzare dell’età media. 🙄
Sono sicuro però che questa stessa generazione, costituisca la base per riformare il nostro Paese e ripartire, nel bene o nel male. Anche perché molti di loro hanno insegnato ai loro figli a sopravvivere in questa giungla, offrendogli l’opportunità, al momento giusto, di far parte della futura capace classe dirigente.
La mia preoccupazione è che c’è il rischio che tale passaggio, non avvenga in maniera pacifica, visto che chi è all’interno della stanza dei bottoni… non vuole assolutamente rinunciare al proprio potere e privilegi… e, a quanto pare, interessa poco o niente del futuro del Paese, data anche la veneranda età.
La preoccupazione avviene pochi attimi prima della loro “defenestrazione” (intesa figuratamente), in maniera simile a quanto avvenuto storicamente a Praga.
Tu, DT ed altri, costituite l’eccezione, non la regola, purtroppo.
Verificato empiricamente molto spesso, quasi da disperazione nei settori in cui sono competente io.
Preparazione teorica molto bassa, scarsa capacità di pensiero autonomo, visione ristretta, ruffianesimo e furbizia da quattro soldi, narcisismo alla grande in compensazione delle doti mancanti, tendenza a farsi proprio il lavoro di altri…
Ovviamente ci sono quelli bravi e molto ma vengono castrati dal rumore di fondo di una mancata selezione sia qualitativa che etica e che funziona a rovescio continuando a privilegiare la casta perpetuandola nei difetti. Non sempre quelli che riescono ad andare all’estero sono quelli bravi ma i figli della casta.
idleproc@finanza:
Non sempre quelli che riescono ad andare all’estero sono quelli bravi ma i figli della casta.
Sì e vero… ma devono essere comunque competenti per emergere. Quindi alla fine fanno parte della stessa generazioni, sebbene più fortunati come base di partenza. 😉
Poi sfatiamo il mito che all’estero non ci siano le raccomandazioni… soprattutto nelle istituzioni e grosse aziende! Però sono spesso accompagnate anche da una valutazione di merito e capacità, in modo che l’eventuale danno (discredito della fonte della raccomandazione) sia “marginale”. 😉
P.S. Siete proprio convinti che andare all’estero sia la soluzione nella prospettiva che si va delineando…?
Pur potendo andare via domani non credo sia la scelta giusta e non mi va di farlo, l’Italia è casa nostra. Penso che sia meglio cercare di cambiare le cose qui e, se volete, pur non avendo la vostra età, sono disponibile a darvi una mano per mandarli via a pedate, anche due mani, pure i piedi. Col passare degli anni i conti da regolare aumentano e sono quelli della parte sana della nostra nazione che da sempre paga pegno.
No, io non ne sono convinto, anche se ho fatto alcune esperienze lavorative all’estero, in Cina e in Svezia. In quest’ultimo caso avevo avuto una bella ed interessante proposta per rimanerci (dopo appena due settimane di lavoro!)… ma ho rifiutato per dare un’opportunità a mia moglie, che contemporaneamente aveva appena trovato un buon lavoro in Italia (e sai quanto è difficile per una donna trovare un lavoro in italia!).
Col senno di poi, dell’immobilismo che si è perpetrato in Italia, peggiorando il nostro sistema economico e rendendolo sempre più clientelare, debbo dire che me ne sono pentito (ma la vita, allo stesso modo della storia, non si fa con i se).
Però il motivo principale per cui sono rimasto, non è il lavoro… ma:
– la buona cucina italiana, visto che ad entrambi amiamo mangiare (e nel mio caso anche cucinare);
– l’invidiato patrimonio architettonico, artistico e culturale che possediamo e il desiderio di conoscerlo meglio.
Per questo spesso insisto che basterebbe incentivare la valorizzazione turistica di queste ultime due risorse (assieme ai 4000 km di coste italiane!) per vivere tutti di rendita!
Ma manca la volontà.
P.S.
Non credere che sia facile mandarli via a pedate… mi ero illuso anch’io, facendo una certa scelta professionale (che mi è costata molta fatica). Troppe collusioni e interconnessioni, che impediscono la mobilità sociale e professionale, specialmente nel settore che “mangia” la gran parte del PIL italiano. Sono proprio attaccati alla poltrona… perché non sono capaci di fare altro!
Penso che sarà il processo della crisi che farà nascere nuove formazioni politiche con base popolare ed è l’unico modo per arrivare alla mobilità sociale e al ricambio. E’ nella realtà di un popolo che esistono le forze vitali per la rinascita. Non vale solo per l’Italia. Ovviamente è una scommessa, la tecnica che stanno usando è quella della passivizzazione e dell’individualizzazione anche attraverso l’uso massiccio della propaganda. Sono effettivamente preoccupato, questi ci infilano in successione in una guerra dietro l’altra che solo per ora sono fenomeni di area.
Premetto di avere 65 anni e di non essere, quindi, parte del gruppo sociale “in oggetto” (30-40.enni). Ho comunque passato 35 anni all’estero, in Germania, dove ho studiato e lavorato: una scelta dettata non dalla necessità (di lavorare) ma dal disgusto che già allora mi suscitava (1970) la realtà italiana. Ricordo, a titolo di piccolo esempio, la “necessità” di dare sottomano 10.000 lire all’usciere del Comune di Milano per avere il passaporto in un tempo ragionevole – e non in 3-4 mesi! Io, che per origini familiari mi sentivo mezzo tedesco, provavo un inesprimibile ribrezzo per quella realtà che mi veniva imposta da un sistema che avvertivo borbonico, un “regime d’occupazione” burocratico (per di piú caratterizzato da un accento dialettale che di milanese o di lombardo non aveva assolutamente traccia).
Ebbene, posso dirti che anch’io amavo – come amo – la cucina italiana (che nel frattempo sta purtroppo scomparendo anche dall’Italia). Amo anche (una parte della) tradizione culturale italiana (anche se non ne vedo una “unitaria”: quella di Venezia, quella di Roma, di Napoli o quella di Catania saranno anche tutte “italiane” – ma molto, molto, troppo diverse). Ma non penso che la “certezza del diritto” che hai (o meglio: NON hai) in Italia valga il cambio con quella tedesca o svizzera – solo perché in Italia si mangia meglio. Lo stesso discorso vale per l’intero funzionamento dello Stato. Anche la Germania ha tanti difetti (e tanta burocrazia): ma è un sistema che, complessivamente, funziona.
A costo di annoiare, vorrei narrare – sinteticamente – due episodi che evidenziano una differenza a mio avviso sostanziale fra i due “sistemi”. Caso 1: stavo tornando a casa, ad Amburgo, da una festa, alle 4 del mattino, avevo ovviamente bevuto piú del lecito (8 per mille!) e quindi seguivo ‘vie traverse’ per non capitare in uno dei frequenti controlli della polizia. Attraversando una zona di bosco ho intravisto (per mia fortuna ancora in tempo utile) due individui che stavano sollevando un palo per “sfondarmi” il parabrezza (e poi – probabilmente – rapinarmi). Evitato con un’accelerata il rischio, mi sono chiesto se andare o meno a denunciare il fatto alla Polizia (visto che il mio fiato tradiva le precedenti libagioni). Ho deciso che – considerate le intenzioni dei due delinquenti e le possibili implicazioni per altre persone – era necessario farlo. Mi sono quindi recato alla piú vicina stazione di polizia e ho raccontato l’avvenuto. I due poliziotti non mi hanno fatto altre domande: dove è avvenuto il fatto? Quando? Del fatto che avessi o non avessi bevuto piú del lecito non si è fatto parola: ero un cittadino che dava una mano all’ordine pubblico- quindi ero a posto.
Caso n° 2 – in Italia. Ero in gita sul lago di Como. Parcheggio la macchina e vado a fare un giro. Torno – mi hanno sfondato il finestrino, rubato la radio e cosí via. Sulla via del ritorno mi fermo (a Bellano) per denunciare il fatto (presso i carabinieri). Prima reazione: non siamo competenti noi di Bellano: visto che è successo a Piona deve andare a Colico. Minaccio di presentare un esposto per omissione e l’appuntato accetta di registrare la denuncia – e comincia a chiedermi se sono sicuro che la mia auto avesse l’autoradio, se era quella che dichiaravo, se potevo documentarne l’acquisto e … e cosí via. Insomma: io venivo sospettato di truffa. Penso che tutti – in Italia – possano riferire casi analoghi o peggiori.
In sintesi: a nord di Chiasso lo “Stato” tenta di offrire ai suoi cittadini i servizi per cui è pagato (con le tasse). In Italia lo Stato si vede come ente a se stante, finalizzato all’autosostentamento, uno “stato” che non deve nulla a nessuno (salvo che alle varie lobby). La cittadinanza ha quindi solo il privilegio di poter fare il proprio dovere pagando per l’esistenza dello Stato stesso, senza ritorno alcuno.
Non c’è Carbonara, Amatrice o pasta al pesto che possano valere una tale scabbia…
Una nota in merito alle problematiche dei gruppi di età: a mio avviso questi ragionamenti sono sbagliati alla base. Il problema non è quello di un gruppo di età avvantaggiato o svantaggiato rispetto ad un altro: l’errore vero è quello del “clientelismo”, della logica a-meritocratica. Se un giovane è valido DEVE potersi fare strada – se non lo è, e bene che vada a zappare la terra. Lo stesso discorso vale per gli anziani o per i vecchi: se uno è valido, è bene che resti al suo posto: ma se è lí perché si è costruito il suo feudo inattaccabile e perché conosce troppo bene gli scheletri negli armadi di altri suoi due o tre mila compagni-parassiti – be’, allora sarebbe bene che se ne andasse (o meglio: che non fosse mai arrivato dove è). Ma quello del “feudo personale”, del parassitismo che porta inevitabilmente, per sua natura, ad una gerontocrazia cleptocratica (come quella che ci governa da cinquant’anni), è un problema che l'”Italia” garibaldi-cavouriana ha (al piú tardi) dai tempi di Crespi e Giolitti: un problema che ha infettato anche il regime fascista e che, dopo la guerra e soprattutto dopo Moro & Fanfani, è andato sempre piú ingigantendosi.
Il vero, autentico problema – comunque – è che ormai tutti si sono assuefatti a questo pantano: e fino a quando il “sistema” riuscirà a dare da mangiare ai suoi infiniti beneficiari (cioè: fino a quando questo “cancro” troverà – in un modo o nell’altro – sufficiente alimento: in Nord-Italia o, a breve, nel Nord-Europa) tutto resterà come è.
Poi… poi si vedrà…
Pardon – errore di battuta: ovviamente non intendevo “Crespi” ma “Crispi e Giolitti”.
Non preoccuparti per il cancro… al momento giusto avverrà la transizione e l’isolamento del malato terminale. A breve avremo anche un precedente: la Grecia. 🙄
Quella era la mia speranza… ma credimi che, come ha egregiamente spiegato schwefelwolf, c’è un’interconnessione di scheletri… allucinante!
L’esempio più immediato è il comportamento attuale della stampa sul nuovo eletto di un nuovo movimento.
Fra poco ci dicono anche quante graffette ha sprecato, la durata media delle telefonate giornaliere, quanto tempo pagato dal contribuente spreca in bagno per i suoi bisogni personali, ecc.
Se è questo il compito come “cane da guardia” della stampa… posso lasciare morire le mie speranze di rinnovamento dal basso dell’Italia (preciso che non mi interessa politicamente tale movimento, lo considero solo un segnale precursore di un lungo processo che richiederà molti anni, se non decenni… sempre se andrà in porto contemporaneamente alla presa di coscienza da parte della massa)
io appartengo alla generazione dei “vecchi”, ma non è per difendere una posizione, la guerra fra generazioni, mi pare un falso problema, quella che io vedo, è una guerra fra ricchi e poveri, e non da ora, già a cavallo fra gli anni 80 e 90, ho sentito puzza di bruciato, mi ricordo dissi con una collega, riporto la frase, che si rifaceva a un vecchio detto bolognese, e i vecchi detti secondo me hanno una saggezza intriseca, e un modo di rappresentare la realtà più colorito: _qua si vuole tornare a che i ricchi mangiano il prosciutto, e i poveri la mortadella_. Infatti si è poi verificata una concentrazione della ricchezza in un numero esiguo di persone, e non solo in Italia. Era evidente che gli esponenti della sinistra e dei sindacati “rappresentativi” aspiravano a insediarsi nella stanza dei bottoni a spese di iscritti e simpatizzanti, ed erano emersi accordi e leggi ad hoc, per tagliare le gambe ad ogni possibilità di ribellione incontrollata. pertanto l’obiettivo di restaurazione non aveva più nessun argine. Era evidente che si volevano cancellare le conquiste ottenute dai lavoratori nei decenni precedenti, e che si volevano attaccare le conquiste sociali conseguite negli anni 60 e 70. mi ero illusa che il progetto europeo potesse creare una convergenza con i paesi mitteleuropei nelle conquiste sociali e nei costumi, dal mio punto di vista più avanzati, rispetto i paesi del sud europa, com ad es. le 36 ore,e fosse un argine nei confronti del tentativo di predominio da parte della cultura nordamericana, e non solo dal punto di vista economico. Poi mi sono accorta che era tutto un altro film. Farsi abbagliare dalla proposta di conflitto generazionale mi pare sciocco. Anche dal punto di vista politico, alcuni soggetti che si propongono in Italia, sotto questa luce, vade retro, non voglio fare nomi, schifezze. Purtroppo non vedo nuovi orizzonti, nel quadro della politica italiana, mi auguro che i ragazzi che oggi protestano , riescano a coagulare le loro risorse in maniera più organizzata, e se non ce la fanno i nostri, spero che ce la facciano quelli di altri paesi a noi vicini, come la Spagna, che vedo più aggressivi,al momento più organizzati, e più connessi con il resto dei cittadini, e facciano da faro per gli altri paesi.
sì, ma quelli che non trovano, che cavolo devono fare, se la mamma non gli da da mangiare e da bere
Scusami la provocazione: vedi frotte di ragazzi che protestano?
Forse perché non funziona più il joystick della console… o la paghetta si è ridotta per improvvisi problemi economici familiari.
P.S.
Oggi è venuta un’altra ragazza a chiedere lavoro. Pardon, per esattezza, era la sua mammina che l’ha accompagnata e ha chiesto come collocare sua figlia (dandolo quasi per scontato). La ragazza non ha aperto bocca (neanche per il classico buongiorno o arrivederci) ed è rimasta sempre in seconda fila (dietro la mammina).
Debbo dire che rimango ancora impressionato… anche se oramai ci ho fatto il callo.
Che bel futuro che avremo! 🙄
Qui si che potrei essere ironico ( se non volgare) sul fatto dell’aprir bocca.
Io invece propendo per una guerra tra generazioni, anzi addirittura tra familiari, tra figli e padri. Figli che si trovano in questa situazione che in qualche modo è stata creata dai padri che egoisticamente rispondono che loro hanno già dato e che i loro diritti non si discutono.
appunto, qua no, ma in Spagna le frotte ci sono, abbiamovisto i video
una volta tanto do ragione alla Fornero, ho sentito il discorso a Focus economia stasera, la Fornero diceva che bisogna scoprire i lavori dimenticati.a casa mia ho fatto fare diverse cose da degli artigiani. persino le mensole nel bagno di plexiglas. vuoi mettere sedersi su un divano disegnato da te, piuttosto che aver acquistato un divano cinese in un mercatone?perchè in un paese dove c’è il culto della casa di proprietà, non si passa il concetto che personalizzare è bello?invece all’ikea c’è la fila, e si è persa la concezione che l’artigianato è un’arte. c’è la fiila per fare le veline o ai concorsi pubblici,non per imparare a fare i tapezzieri, o i faleganami,che li devi cercare col lanternino, quelli bravi, e pagarli salati.fra un pò non ci saranno più, come avremo perso i fornai che fanno i pani tradizionali. il ragnino, tipico pane bolognese buonissimo, ormai non lo fa più nessuno, già vent’anni fa quando lavoravo in centro a Bologna, uno degli ultimi fornai delle vie centrali,mi disse non lo faceva più perchè costava troppo. importeremo fornai pakistani, mentre i ragazzi italiani allungheranno le fila d’attesa ai lavori di cui sopra. spero che mi rottamino, e mi mettano in mobilità, così imparerò a farmi i ragnini da sola.magari per arrotondare la mobilità potrei andare a mungere le pecore.in un agriturismo in cui sono stata tempo fa mi hanno detto non trovano nessuno, ad aiutare il pastore. si fa per dire, non andrei perchè occorre soggiornare lì, sono 30 km da casa mia, ed è probabile perderei l’eventuale mobilità. lo stesso pastore mi ha detto che per tosare le pecore viene uno dalla Nuova Zelanda, che tosa tutte le pecore del circondario. non racconto delle frottole, la località è Mongardino, provincia di Bologna.mi spiace che questo vada ad alimentare quello che sostengono alcuni esponenti di destra, ma è la pura verità.l’eccesso di offerta di lavoro in alcuni settori non aiuta a sostenere le pressioni di chi vuole deregolamentare.
..spesso mi domando quale influenza abbiano avuto gli “anni di piombo” e i movimenti del “68” sulla situazione dei 30/40enni attuali… figli più o meno di quella generazione. E’ certo che governi, confindustria (allora capeggiata da G. Agnelli che da una mano concedeva e dall’altra prendeva) e istituzioni aprirono il percorso delle concessioni a tutti i costi e in tutti i sensi per paura di possibili rivolte interne, poi vennero le assunzioni politiche in ogni settore e azienda pubblica, poi il “voto politico” e nel permissivismo generale il sistema politico si è abituato a vivere con le tangenti come modus vivendi… Sono flashes, ci sarebbe da scrivere un libro, ma tanto per dare un’idea, credo che tale periodo abbia avuto forti influenze sulla situazione odierna….
Credo che mai come in questo momento sia importante guardare al futuro, evitando di ripetere gli errori del passato.
Ci vuole impegno civile, quello basato sui valori, azione immediata (non violenta ma orientata al bene della comunità locale e civile) senza pensare prima a quello che ci viene di ritorno (potrebbero passare molti anni o addirittura essere solo una spesa di energie, soldi e passione).
Peccato però il consumismo, a causa dei mille bisogni inutili che ci hanno fatto credere di essere indispensabili e lo sfrenato individualismo nato da esso (per massimizzare i consumi) rendono difficile tale transizione.
Ma man mano che ci tolgono risorse e speranze… vedrai che sarà sempre più facile e immediato.
Penso che tu abbia centrato nel segno – almeno per quanto riguarda l’Italia (ma non solo). Non dico tutto: ma se non tutto, almeno molto dipende da quel “disastro” chiamato ’68, un “mito” che la sinistra (e non solo lei) continua a definire “liberatorio”.
In realtà il ’68 è stata l’affermazione del diritto all’irresponsabilità, la vittoria della tesi per cui fra diritti (innati , incontestabili e inalienabili) e doveri (imposti dai “fascisti (?) o – nella migliore delle ipotesi – dalla ‘società'”) non ci dovesse essere relazione alcuna. Ricordo un mio amico giornalista “68’.ino” che, a quei tempi, mi disse – mentre parlavo di motivi “tecnici” per cui, a mio avviso, una certa soluzione (politico-sociale) non poteva funzionare: “Chi parla di ‘logiche tecniche’ è un fascista”. Come dire che chi afferma la necessità di una centrale, per erogare corrente elettrica, è un fascista. Sembra – con gli occhi di oggi – uno scherzo: ma all’epoca era ‘normale’. Come era normale che un mio altro “amico” 68′.ino mi dicesse che tutti potevano diventare Einstein: era solo un problema di alimentazione nell’infanzia, di vitamine e proteine nell’alimentazione del giovane organismo. Non scherzo, non racconto barzellette – era un esponente di Lotta Continua, di cui potrei fare nome e cognome.
I piú giovani, oggi, non possono ovviamente ricordare cose che non hanno vissuto – e che molti dei piú vecchi preferiscono (probabilmente) dimenticare: ma il “68” è stato lo smantellamento anarcoide delle strutture culturali tradizionali. Ricordo professori di chimica costretti a discutere della definizione di “materia” data da Lenin, ricordo gli esami “di gruppo” – ma soprattutto ricordo l’assalto alla dililigenza dei posti pubblici (non solo universitari) che la “rivolta studentesca” andava “liberando” a colpi di aggressioni – e che da allora tiene saldamente occupati. Sarebbe interessante un’analisi statistica sulla percentuale delle cattedre universitarie (nonché procure) a tuttoggi “presidiate” dai “contestatori” sessantottini (che per altro, oggi, si rifiutano caparbiamente di andare in pensione).
Il nostro mondo attuale – in Italia e in Europa (e non so in quale misura anche negli USA) – è dominato (nel senso letterale del termine) dagli esponenti di quella “cultura della contestazione” – o meglio, in termini “fisici”: da coloro che hanno usato quella cultura per mettere le mani sul potere: nei partiti, nell’amministrazione, nella magistratura. Hanno in mano anche i media: andate a guardare i curricula delle principali “firme” italiane (e non). E continuano a fare – anche se le lunghe “chiome” di allora si sono diradate, accorciate e ormai incanutite – ciò che allora reclamavano: difendono tutti i diritti di tutti (“fascisti” esclusi – riservandosi, ovviamente, il diritto di decidere chi sia “fascista” e chi no). I costi? Non importato… i “ricchi” (e i contribuenti) devono pagare. Cosí si prendono i famosi due piccioni con una fava: si elargiscono soldi (dei contribuenti) a milioni di assistiti e si pagano ottimi stipendi a chi “gestisce” l’assistenza (cioé centinaia di migliaia di sociologi, psicologi, pedagoghi etc.) che le facoltà 68′.ine continuano a sfornare in gran copia e che sarebbero, altrimenti, inesorabilmente, disoccupati (a meno di non ricevere da qualche “amico” un incarico di “ricerca”?).
L’unico problema che resta è quello di trovare i soldi per mantenere questo “paradiso” sessantottino. Se non basta il Nord-italia andiamo a bussare a Bruxelles o a Berlino…
Meglio che lasciamo perdere i vi sembra giusto altrimenti inneschiamo polemiche a non finire. Potenzialmente in mano non abbiamo un pugno di mosche, ci ritroviamo con certezza un bel niente. In un paese dove ormai con 42 anni d’età ti ritrovi praticamente fuori dal mondo del lavoro, i fortunati che riescono ad arrivare a 65 anni con un lavoro possono smettere con anche 50 anni di contributi,alla faccia delle baby pensioni passate.