La vulnerabilità del sistema bancario

Scritto il alle 09:44 da lampo

In un precedente post avevo mostrato un grafico, estrapolato da un rapporto dell’OCSE ([1]), che riguarda la vulnerabilità del sistema bancario al fallimento.  Ho fatto una piccola ricerca di approfondimento sull’argomento, anche per comprendere quanto effettivamente mi devo preoccupare. La condivido volentieri, augurando sia di vostro interesse.

Chiedo anticipatamente scusa agli esperti in materia: affinché questo scritto sia comprensibile anche dal lettore che di economia ne capisce poco quanto me, ho adottato  varie semplificazioni.

Ho trovato molti dati interessanti in un rapporto della European Banking Federation ([2]), che riunisce e rappresenta le principali associazioni bancarie europee (ABI compresa). Una breve premessa con un po’ di teoria.

Il patrimonio (contabile) di una banca rappresenta quelle risorse finanziarie che le permettono di operare in condizioni di solvibilità.

In pratica si tratta di risorse “stabili” e disponibili, che le consentono di fronteggiare le eventuali perdite connesse ai rischi assunti nell’esercizio della propria attività (sono composte principalmente da capitale sociale, riserve, utili d’esercizio dell’anno in corso e accantonamenti precedenti, fondo rischi bancari generali, ecc.). Più elevato è il patrimonio… e maggiori sono i rischi che può accollarsi! Quindi il capitale svolge il compito di ammortizzare le eventuali perdite, evitando l’insolvenza della banca.

Il “livello” di patrimonializzazione mette in relazione il capitale con il profilo di rischio assunto dalla banca; viene “misurato” con indicatori quali il Tier 1 Capital Ratio (Tier1), il Total Capital Ratio (TCR), ecc.

I vari accordi di Basilea (adesso siamo a 3…) servono per incentivare le banche ad aumentare e rafforzare tale livello di patrimonializzazione, adottando livelli minimi di capitale (quali il patrimonio di vigilanza) coerenti con i rischi assunti; inoltre le “obbligano” a dotarsi di “strumenti” che servano a misurare e controllare i rischi più complessi ed avanzati.

Per approfondire l’argomento vedere le note [3] e [4].

La seguente tabella ([5]) riporta il rapporto derivante dal patrimonio (assets) di tutte le banche di ciascun stato aderente all’Unione Europea rispetto al  suo PIL nazionale (GDP).  In pratica fatto 100 il PIL di una nazione, se il patrimonio di tutte le banche di quel Paese è pari a 3 volte il PIL nazionale, il rapporto è del 300%. A titolo di confronto, ho riportato altri tre Stati non UE: Islanda, Svizzera e Norvegia. Tutti i dati si riferiscono all’anno 2009.

Il seguente grafico ([6]) spiega in maniera più semplice i dati riportati in tabella. Il numero riportato in giallo corrisponde al numero totale delle banche.

Adesso la stampa economica, con l’amplificazione dei mass-media, sforna a raffica articoli che vanno ad enfatizzare il livello di preoccupazione dato dal rischio di default degli Stati sovrani (Grecia, Irlanda, Portogallo, ecc.), i livelli raggiunti dai CDS, i vari differenziali fra il bund ed il tasso di rifinanziamento dei debiti pubblici con le nuove emissioni di titoli di stato, ecc…

Ma se si spargesse la voce che invece sono le banche ad avere qualche problemino di insolvenza… dove troverebbe lo Stato i soldi per salvarle… visto l’enorme incidenza del loro patrimonio rispetto al PIL? Ne è stato ampiamente discusso sul blog.

Tenete in considerazione che per molti stati UE le banche più grosse, oltre a contarsi sulle dita di una mano, hanno un patrimonio che copre gran parte delle percentuali rappresentate. Se a causa dei troppi rischi finanziari assunti, una di queste banche avesse problemi di insolvenza e quindi bisogno di una bella iniezione di liquidità… lo Stato che fa? Semplice: ipoteca qualche anno di PIL presente e futuro per salvarle, emettendo titoli di debito pubblico sui mercati finanziari e sperando che gli investitori corrano a comprarli in modo che il costo di finanziamento (il tasso d’interesse) sia basso. Oppure una banca in crisi può decidere di ricorrere direttamente al mercato, con un’emissione di titoli di debito oppure un bell’aumento di capitale (pensate solo a tutti quelli in corso in questi giorni… non solo in Italia).

Tutto questo ci ricorda qualcosa? Ma sì, certo… è proprio quello che sta succedendo dall’inizio della crisi (attribuita al fallimento della Lehman Brothers)! Avete oramai compreso che i vari organismi internazionali (FMI, BCE, FED, ecc.), le varie Autorità di Vigilanza, in accordo con gli Stati sovrani (e governi), piuttosto che si manifesti tra l’opinione pubblica la paura e il conseguente panico dovuti alla notizia di insolvenza da parte di “qualche” istituto di credito… preferiscono accollarsi le spese. Vi ricordate la famosa parolina magica: nazionalizzazione.

Permettetemi una pausa per citarne la definizione: trasferimento di attività produttive dal settore privato al settore pubblico mediante opportuni provvedimenti legislativi.

In pratica la socializzazione delle perdite… ovvero ci accollano parte dei soldi che abbiamo dato alle banche… e che,  se andassimo tutti contemporaneamente a prelevarli, non ci restituirebbero perché non ci sono (a causa anche della leva finanziaria)! Quindi paghiamo due volte: i soldi persi dalle banche in attività finanziarie rischiose, in interessi sul debito pubblico e/o prelevati dalle nostre tasche con le varie leggi finanziarie che, per far quadrare i conti, aumentano le tasse… oltre a quelli lasciati in debito alle future generazioni ([7]). Adesso… che mi sono tolto questo sassolino dalla scarpa… possiamo continuare.

Quindi, ritornando al ragionamento precedente, è evidente che gli Stati sono dovuti intervenire nella crisi finanziaria in corso: il risultato è un aumento del debito pubblico e il rimando del problema alle generazioni future (con i debiti pubblici raggiunti… lasceremo  anche ai nostri… pronipoti un bel ricordo, da pagare!). Senza contare gli effetti sulla disoccupazione, gli stipendi, le pensioni, lo stato sociale, “crescita economica”, tasse, ecc.

E’ lampante quale sia l’asserzione di fondo che mantiene ancora alta la “fiducia” e vivo e vegeto il sistema finanziario attuale: l’opinione pubblica ritiene più credibile e terrificante l’insolvenza di una banca, rispetto al fallimento di uno Stato sovrano. Tutti concorderete che gli Stati non possono fallire… o, almeno, è una eventualità remota (Argentina docet).

I vari organismi internazionali che si accalcano in “sala di rianimazione” per assistere e curare il grave malato, ovvero il sistema finanziario attuale… hanno ben compreso questa “credenza popolare” e preferiscono mantenere alta la “fiducia”  (i mercati  finanziari si fondano su questa parola). Come? Scegliendo l’indebitamento statale piuttosto del fallimento di “qualche” banca (viste anche le successive conseguenze come evidenziato dal fallimento del colosso Lehman Brothers).

Ma fino a quando potrà durare?

Adesso, per un raffronto, andiamo dall’altra parte dell’oceano atlantico, negli USA. La seguente tabella ([8]) riporta, in maniera analoga alla precedente, il rapporto derivante dal patrimonio (assets) di tutte le banche di ciascun stato USA rispetto al  suo PIL (GDP).

II seguente grafico ([11]) spiega meglio i dati riportati in tabella.

Dal totale del Rapporto Patrimonio/PIL nel 2009 riportato nelle due tabelle, è evidente che l’Europa è molto più esposta e fragile rispetto agli USA: circa 3 – 4 volte.

Un rapporto dell‘Institute of International Finance (IIF) ha analizzato l’impatto che avranno sul sistema economico mondiale, le misure adottate dalle recenti proposte di modifica del quadro di regolamentazione bancaria ([12]). Alla fine del 2009 le banche USA avevano una patrimonializzazione maggiore rispetto all’UE (un Core Tier 1 Capital Ratio di rispettivamente 10,5 contro 8). In pratica, in termini assoluti, le banche UE sono più esposte rispetto a quelle USA al rischio di insolvenza.

Per questo si stima che entro il 2020, le banche UE avranno bisogno di molte centinaia di miliardi di $ per aumentare la propria patrimonializzazione, tre volte di più rispetto a quanto necessario agli USA.

Ciò inciderà sulla futura crescita economica, consumi e disoccupazione, visto che si tratta di capitale che poteva essere impiegato in attività diverse, quali prestiti alla clientela o investimenti.

Sarà anche per questo che la speculazione finanziaria preme sull’Europa?

Adesso giusto perché, come dicevamo in premessa, non è il caso di spargere la voce che anche le banche possono “ogni tanto” avere qualche problemino di insolvenza… rimaniamo negli USA e… vediamo una tabella che riporta il numero delle banche che sono fallite ([13]) negli ultimi anni!

Non credo serva commentare. Preciso solo che diverse avevano un buon grado di patrimonializzazione (Core TIER 1 elevato): quindi dovevano essere sicure! L’elenco dettagliato lo potete trovare qui:

http://www.fdic.gov/bank/individual/failed/banklist.html

Dopo il fallimento, la maggior parte è stata acquisita da altri istituti di credito… tranne alcune (ne ho riportato il numero in colonna). Ricordo che negli USA il fondo di garanzia interbancario (FDIC) assicura per ciascun depositante sino ad una somma di 250.000 dollari.

Tale fondo negli ultimi anni ha avuto molte problematiche di liquidità, specialmente a partire dalla fine del 2008, a causa dell’aumentare delle banche fallite a conseguenza della crisi finanziaria.

Ed in Europa? Vedremo cosa succederà, ma per quanto tentano di salvare di qua e nazionalizzare di là… alla fine toccherà anche a noi la stessa sorte USA. Non per niente l’UE si è apprestata nel 2009, “a causa delle turbolenze dei mercati finanziari”  ad emanare una nuova direttiva (la 2009/14/CE) in materia di tutela dei depositi ([14]).

Essa ha uniformato a livello europeo le garanzie, portandole a € 100.000. Poi, “con la necessità di preservare la fiducia dei depositanti”, ha soprattutto sveltito la tempistica di rimborso portandola a soli venti giorni lavorativi.

Sapremo nei prossimi mesi cosa ci riserverà il futuro.

Lampo

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[1] Fonte – OECD – Economic outlook 88: http://www.oecd.org/dataoecd/41/33/35755962.pdf.

[2] Fonte – EBF – European Banking Statistics 2009: http://www.ebf-fbe.eu/uploads/8G-October%202010-D1560c-2010-Database2009.xls.
[3] Approfondimento – Università degli Studi di Perugia – Facoltà di Economia – Il patrimonio delle banche: http://www.ec.unipg.it/ez_new/index.php/ita/content/download/1800/9046/file/Il%20Patrimonio%20delle%20Banche.ppt
[4] Approfondimento – Associazione per lo Sviluppo degli Studi di Banca e Borsa – Seminario su:
“Redditività, patrimonio e mutamenti organizzativi nelle banche italiane”: www.assbb.it/CMI/QUADERNO196.pdf e www.assbb.it/CMI/QUADERNO199.PDF
[5] La tabella è il risultato di una elaborazione dei dati riportati dalla fonte citata nella nota n. 2.
[6] Questo grafico dell’EU è stato elaborato usando come base di partenza una cartina dell’Europa scaricata da Wikipedia a questo indirizzo: http://en.wikipedia.org/wiki/File:Blank_map_of_Europe.svg, dove sono riportati gli autori e gli accordi di copyright e licenza d’uso.
[7] Ovviamente la mia è una semplificazione provocatoria: la realtà è molto più complessa. Anche se andassimo tutti contemporaneamente a prelevare i nostri soldi dai conti correnti, le banche, prima di esaurire la liquidità, richiederebbero l’intervento della banca centrale per il blocco dei prelievi (caso Argentina) o suo razionamento (un prelievo massimo giornaliero, già implementato mediante i bancomat…), in attesa del disinvestimento della parte di patrimonio impegnato in attività finanziarie non immediatamente liquidabili al cliente. Poi, nel frattempo, possono sempre incamerare la liquidità mancante emettendo titoli di debito (es. emissione di nuove obbligazioni), mediante promozioni, emettendo assegni circolari, ecc. In ultimo il denaro è oramai principalmente elettronico: la media di prelievi annuali di contante in EU si aggira sui 2.000-2.500 euro (la maggior parte mediante bancomat o prelievi meccanizzati). Per questo, lo scorso 7 dicembre, la protesta promossa da Eric Cantona non poteva e non avrà mai successo
[8] La tabella è il frutto di una elaborazione dei dati riportati dalle fonti citate nella nota n. 9 e 10.
[9] Fonte dei dati sul PIL (GDP) – Bureau of Economic Analysis (BEA): http://www.bea.gov/regional/gdpmap/GDPMap.aspx. Impostazioni: Year: 2009, Industry: All industry total, Statistic: GDP by state (current dollars), Unit of Measure : Levels, Ranges: 5, Distribution method: Equal Count, Units: millions of dollars.
[10] Fonte dei dati sul patrimonio (assets) – Federal Deposit Insurance Corporation (FDIC): http://www2.fdic.gov/SDI/SOB Impostazioni: Report date: 12/31/2009, Industry: All FDIC-insured, Geography: State (ricavato il dato per ogni stato) (current dollars), By : Time Series, Reports: Assets and Liabilities. La tabella riporta solo i dati dei 50 stati e non quelli dei i territori non incorporati negli USA: American Samoa, District of Columbia, Federated States of Micronesia, Guam, Puerto Rico e Virgin Island. Per cui i totali riportati tabella sono leggermente inferiori dal totale ricavabile dal dato nazionale interrogando la fonte indicata (se aggiunti tali dati il totale coincide con il dato nazionale).
[11] Questo grafico degli USA è stato elaborato usando come base di partenza una cartina degli USA scaricata da Wikipedia a questo indirizzo: http://en.wikipedia.org/wiki/File:Map_of_USA_with_state_names.svg, dove sono riportati gli autori e gli accordi di copyright e licenza d’uso.
[12]  Fonte – EBF: http://www.ebf-fbe.eu/uploads/10-Interim%20NCI_June2010_Web.pdf
[13] Fonte – Federal Deposit Insurance Corporation (FDIC): http://www.fdic.gov/bank/individual/failed/banklist.html Contiene l’elenco delle banche fallite dal 1 ottobre 2010.
[14] Fonte – Fondo Interbancario di Tutela dei Depositi (FITD): http://www.fitd.it/normative/direttive/Direttiva2009-14-CE.pdf

10 commenti Commenta
lampo
Scritto il 5 Maggio 2011 at 10:51

DT… belle le vignette 😉

italo-americano
Scritto il 5 Maggio 2011 at 10:53

Ciao dream!
Vorrei chiederti una delucidazione, le tabelle che hai riportato elencano i rapporti assets(impieghi delle banche)/PIL o patrimonio banche/PIL?!
per quanto so dovrebbero essere due rapporti diversi, sbaglio?!
Approffito per farti i complimemti per il blog……ogni volta proponi temi e approfondimenti veramente interessantissimi:)
Buona giornata
Stefano

lampo
Scritto il 5 Maggio 2011 at 10:57

italo-americano@finanzaonline,

Le tabelle riportano il rapporto assets/PIL… forse la traduzione che ho usato non è molto chiara.
Un approfondimento della provenienza dei dati la trovi nelle note n. 2 e 10 in fondo all’articolo

maurobs
Scritto il 5 Maggio 2011 at 11:49

Bel lavoro Lampo grazie

antipatix
Scritto il 5 Maggio 2011 at 18:41

problema
“Ma se si spargesse la voce che invece sono le banche ad avere qualche problemino di insolvenza…”

soluzione trovata!

coco bonds…

l’ennesimo prodotto della cosiddetta ingegneria finanziaria che converte l’obbligazione bancaria in azioni dello stesso istituto in caso di sforamento dei parametri di Basilea: se la banca va male il debito si dissolve e la conversione in azioni la ricapitolarizza in automatico a spesa dell’investitore che ambiva alle ricche cedole dell’obbligazione ed invece si ritrova un azione in probabile caduta.
Per il momento è uno strumento riservato agli istituzionali ma secondo me diverrà popolare nei prossimi anni.

lampo
Scritto il 5 Maggio 2011 at 19:00

Non sapevo della loro esistenza… infatti mi sono documentato dopo il tuo commento:
http://www.ilsole24ore.com/art/finanza-e-mercati/2011-02-15/credit-suisse-test-coco-064311.shtml?uuid=AaBnMO8C
Certamente…ne hanno di fantasia… e quindi la mia piccola ricerca… è stata proprio pertinente. Il problema sono proprio le banche europee… 🙁

andrea.mensa
Scritto il 5 Maggio 2011 at 19:03

lampo,

scusami Lampo, ma sono mica tanto d’accordo sul tuo lavoro.
innanzitutto per giudicare quanto una banca sia a rischio, occorre conoscerne il patrimonio proprio, suddiviso in varie voci, ma per dare l’idea, chiamiamolo in toto capitale proprio.
poi, a quel punto facendo il rapporto tra gli impieghi ed il capitale proprio, si potrà avere un’idea di quale sia la capacità della banca di supplire ad eventuali default dei clienti, ovvero di coloro che hanno avuto denaro ma non lo rendono, anche qui diviso in vari livelli, dai semplici incagli, al default.
infine, per capire quanto eventualmente lo stato può intervenire a ricapitalizzare una banca in default, ovvero quella banca che non riesca a coprire le perdite con il proprio capitale, allora si potrà vedere il rapporto tra asset e GDP.
della serie, in caso di crisiovvero di prestiti non rimborsati, quanto può intervenire la banca con i mezzi propri?
e se la banca li esaurisce, quanto può intervenire lo stato ?
qui manca proprio il secondo termine, ovvero il patrimonio delle banche.
o sbaglio ?

lampo
Scritto il 5 Maggio 2011 at 19:16

andrea.mensa@finanza,

Certo… hai ragione. Ma non sono potuto andare così approfonditamente per mancanza di dati europei (almeno io non sono riuscito a trovarli tra quelli pubblici e non riservati a professionisti del settore). Mi spiego: se vedi il link riportato nella nota n. 10 interrogando il database americano trovi tutti i dati che citi, compreso il core tier 1 e tier 2… oltre ai crediti incagliati e via dicendo.
In Europa non sono riuscito a trovare tali dati. Gli unici li ho trovati nel database dell’OCSE: però non sono così dettagliati e mancano per parecchi stati oltre ad essere aggiornati al solo 2008.
Così non ho potuto fare anche quel raffronto… che effettivamente sarebbe stato più dettagliato.
Poi non so però andando così nel dettaglio quanti avrebbero letto il post… che già così e piuttosto lungo. 😉

lampo
Scritto il 5 Maggio 2011 at 19:18

lampo,

Se leggi il rapporto riportato nel link della nota n. 12… trovi che la situazione però corrisponde a quanto espresso… anzi forse è anche peggio. 🙁

calciatore
Scritto il 5 Maggio 2011 at 21:36

Tutto giusto, i ratio patrimoniali, i TIER 1 -2 , gli stati patrimoniali ed altro. Resta il fatto storicamente ineliminabile che se le banche hanno bisogno di sanare i loro errori chiedono soldi al mercato , non paga mai nessuno personalmente , paga solo il contribuente.

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