SIRIA: perché non si ferma il massacro?

Scritto il alle 14:45 da Danilo DT

GUEST POST: come mai hanno abbattuto il regime di Gheddafi mentre la Siria di Assad continua in una condizione socio-politica catastrofica?

La crisi in Siria è arrivata ad un livello ingstibile. E molto spesso ci si chiede come mai non si intervenga a favore di uno stato che ormai è al collasso. Questo articolo, credo, possa farvi capire alcune cose, con una drammatica chiusura, che spiega come si arriva addirittura a confondere le vittime con i carnefici. E a rimetterci? Sempre loro, i più deboli…

DT

La necessità di giustificare il ricorso alla forza con argomenti moralmente inoppugnabili contraddistingue da sempre il comportamento degli Stati. Sono pochissime le circostanze in cui delle potenze abbiano aggredito qualche loro vicino riconoscendo di non aver titolo a farlo: forse, è accaduto solo nel caso della violazione della neutralità belga da parte del Reich tedesco agli inizi del primo conflitto mondiale.

Movente umanitario

Neppure l’imperativo di intervenire militarmente per proteggere i diritti umani può dirsi interamente nuovo. Lo menzionarono ad esempio gli americani, quando attaccarono Cuba nel 1898. Un obiettivo di alto profilo, in effetti, è sempre utile alla causa, aiutando a mantenere elevato il consenso che deve circondare la conduzione di una guerra.

È proprio per questa ragione che il movente umanitario sta assumendo maggior rilevanza in questa fase storica, contraddistinta da una significativa diffusione della democrazia e da un’accentuata mediatizzazione della politica. La violazione massiccia dei diritti umani e l’uso di elevati livelli di violenza contro le popolazioni civili determinano infatti un’indignazione nell’opinione pubblica alla quale non sempre i governi riescono a resistere.

Sta risentendo di questo processo anche il diritto internazionale, seppure la formulazione del concetto di “Responsabilità di proteggere”, avvenuta all’indomani della guerra per il Kosovo, lasci ancora adito a molti dubbi, introducendo ambiguamente il diritto-dovere della comunità internazionale di tutelare i diritti umani qualora questa fondamentale obbligazione politica sia disattesa da uno Stato, senza tuttavia espropriare il Consiglio di sicurezza dell’Onu dell’essenziale funzione di stabilirlo.

Realismo

In teoria, la maggior sensibilità collettiva nei confronti di temi tanto delicati rappresenta sicuramente un progresso. Tuttavia, sembra più opportuno conservare un certo realismo nei confronti di questo fenomeno emergente. Per almeno tre ordini di ragioni.

Il primo: l’evidenza empirica dimostra che non tutte le crisi umanitarie sfociano in interventi militari volti a porvi fine. Questo è invece l’esito soltanto di alcune, quelle che in genere affiorano in paesi a debole statualità, internazionalmente isolati ed il cui controllo costituisca per le ragioni più varie una posta geopolitica allettante. Ne consegue che non tutte le violazioni massicce dei diritti umani possono essere trattate nello stesso modo.

Al contrario, si permette alle potenze maggiori di fare in materia il bello ed il cattivo tempo, mentre le nazioni meno forti subiscono una riduzione asimmetrica a loro sfavorevole della propria sovranità. Questo è un punto cruciale, perché non sono pochi i paesi meno potenti che nella “Responsability to Protect” vedono una nuova forma di imperialismo, ancorché umanitario.

Il secondo: la grande sensibilità della società civile internazionale nei confronti del rispetto dei diritti umani incoraggia obiettivamente chi è interessato a promuovere cambiamenti dello status quo a generare la percezione di un’emergenza umanitaria. La circostanza fa sì che non sia affatto escluso il rischio che gli Stati possano essere indotti ad assumere decisioni sulla base di una deliberata manipolazione delle informazioni, operazione che il web 2.0 permette ormai anche ai cosiddetti concerned citizens. Con il risultato ultimo che le scelte finali sulla pace e sulla guerra finiscono per essere fatte al di fuori di una razionale valutazione dei futuri assetti dei paesi in cui si sceglie di intervenire.

I precedenti non mancano. Oltre al recente caso libico, sia sufficiente ad esempio pensare alle sofisticate strategie comunicative adottate con successo dai musulmani bosniaci e dai kosovari albanesi per capovolgere con l’intervento di potenze straniere i rapporti di forza nei conflitti che li vedevano impegnati.

Il terzo: proprio perché il rischio dell’eterodirezione è elevato – sia a favore delle potenze maggiori nei confronti di quelle minori, sia a vantaggio di minoranze capaci di utilizzare più efficacemente i nuovi social media – il movente umanitario implica il pericolo di indurre avventure militari contrarie agli interessi nazionali contingenti degli Stati che vi partecipano. Cosa che contribuisce a precipitare nel caos i paesi interessati dagli interventi militari umanitari, una volta che i regimi accusati di perpetrare violazioni gravi e massicce dei diritti umani siano stati rovesciati.

Valori e rapporti di forza

Con ciò, ovviamente, non si vuol certamente qui sostenere l’odiosa tesi secondo la quale la politica estera debba essere priva di principi direttivi diversi dal perseguimento di interessi definiti nella loro più gretta accezione. Tutt’altro: non si può più, infatti, operare efficacemente sulla scena internazionale senza combinare realismo e valori, perché il deficit di legittimità che ne deriverebbe minerebbe l’efficacia complessiva di tutta una politica.

Quello che invece si desidera sottolineare è altro: prima di cadere nella trappola dei conflitti scatenati in nome della “Responsabilità di proteggere”, è necessario comprendere quali forze ne promuovano lo scoppio e se convenga o meno assecondarle.

Sotto questo profilo, la Libia di ieri e la Siria di oggi sono due casi per certi versi esemplari. Non sono pochi infatti coloro che oggi si mostrano insoddisfatti per la situazione politica determinatasi a Tripoli e Bengasi dopo la defenestrazione di Muammar Gheddafi, e dubbi aleggiano anche sulle violazioni dei diritti umani riconducibili ai vincitori del conflitto civile libico, spesso tutt’altro che innocenti.

Damasco è invece una prova “a contrario”. È bastata infatti la copertura offerta al regime degli Assad da alcune grandi potenze, sul campo come alle Nazioni Unite, per arrestare la macchina del conflitto umanitario e costringerla a ripiegare sulla fornitura di armamenti e vari altri sostegni agli insorti. Diritti umani sì, quindi, ma con un occhio ai rapporti di forza.

Ecco perché non sembra ancora possibile concludere che si sia affermata una dimensione umanitaria davvero indipendente dalla politica. È sempre la politica che determina alla fine chi siano le vittime, da difendere, e chi i carnefici, da sconfiggere, magari permettendo ai primi di invertire successivamente i ruoli a proprio vantaggio.

È opportuno esserne consapevoli anche nel prosieguo del sanguinoso conflitto civile siriano, nel quale è ormai difficile stabilire chi non si stia macchiando di crimini e dove sono più che mai evidenti gli interessi e le ambizioni di tutte le parti che direttamente od indirettamente vi stanno partecipando

Germano Dottori (from AffarInternazionali)

 

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2 commenti Commenta
piematac@borse.it
Scritto il 26 Settembre 2012 at 15:33

La guerra si farà, ma dovranno ben maturare 2 condizioni :
1) pretesto per allargarsi all’Iran;
2) utilizzare il conflitto per la ripresa economica. 😯

gonzalo
Scritto il 27 Settembre 2012 at 11:50

La Siria resiste perchè è appoggiata dalla Russia ed anche dalla Cina, sostegno che invece non aveva Gheddafi.

P.S. La Russia ha anche una base navale a Tartus

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