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PERCEZIONE DEL RISCHIO: tutti vogliono partecipare alla grande festa!
I mercati ci hanno regalato un 2019 (fino ad ora) molto positivo. La tendenza è restata unidirezionale per tutte le asset class. E la slide che vi propongo in apertura di post credo sia esplicita.
Azionario su.
Obbligazionario su.
Commodity su.
Valutario… quello è l’unico mercato che per forza ha sempre vincenti e perdenti. Intanto però per l’investitore europeo l’esposizione all’USD non ha fatto danni e quindi possiamo dire che anche per il Valutario si è andati “su”.
E allora benvenuti!!! Si fanno soldi facili in ogni dove!
Ma fate bene attenzione. La storia insegna e al mondo nessuno ti regala nulla. Oggi abbiamo un grande sponsor, un sistema che ovviamente rema tutto verso la stessa direzione.
L’obiettivo spero sia chiaro a tutti. Liquidità all’ennesima potenza (e allora come spiegare la crisi di liquidità del sistema bancario USA di breve termine che ha spinto la FED ad uno pseudo QE? Se è necessario, vi spiegherò il perché), tassi compressi verso il basso, crescita economica che non deve essere sontuosa ma dignitosa, o forse sarebbe meglio dire “quasi piatta”, e volatilità BASSA, sentiment sempre a livelli elevati, e percezione di stabilità economica finanziaria.
Quindi cercare di traghettare a psicologia delle persone verso quello che possiamo definire il mondo perfetto, dove l’azionario diventa quasi meno rischioso dell’obbligazionario ed i risparmiatori investono copiosamente sull’equity finanziando la crescita economica ed alimentando la macchina del sistema.
Ovvio, mancano tanti tasselli, ho cercato di dare una massima e lacunosa sintesi.
Ma il concetto è chiaro.
Grazie questo nuovo status, il risparmiatore ha totalmente perso la percezione del RISCHIO.
Ovvero, comprare equity è diventato normale perché le prospettive nel lungo termine sono sempre positive e i bond sono a rendimento negativo. Ma funziona proprio così?
In questi giorni ho letto un interessante post del Professor Fabrizio Crespi.
Ve lo ripropongo perché ci permette di focalizzarsi proprio su questo problema. La percezione del RISCHIO FINANZIARIO.
Rischio e percezione del rischio
Il refrain è più che noto, praticamente a tutti. Quando si investe (e ciò vale per qualsiasi investimento), si corrono dei rischi. E a seguire, l’ulteriore ritornello è che “chi non risica non rosica”, intendendosi che se non ci si assume una certa dose di rischio non si può sperare di ottenere un rendimento significativo (ma è veramente così?).
Tuttavia, il concetto di rischio non è così chiaro e univoco come si potrebbe pensare; ed inoltre, un conto è la misurazione/stima più o meno corretta del rischio che viene effettuata dagli esperti di settore attraverso molteplici indicatori (standard deviation, VAR, Beta, ecc..), un altro è la percezione del rischio che hanno gli investitori retail a cui i consulenti finanziari si rivolgono.
Proviamo allora a fare alcune considerazioni per aiutare ad avere una visione meno distorta.
Il concetto di rischio: tra filosofia e statistica
Se partiamo dalla definizione che ne dà la Treccani on line, il rischio è l’eventualità di subire un danno connessa a circostanze più o meno prevedibili (è quindi più tenue e meno certo che il concetto di pericolo).
In questa definizione, è già implicito il fatto che il rischio, o meglio un evento rischioso, è rappresentato da uno stato di incertezza in cui alcuni possibili risultati (in qualche modo misurabili) hanno un effetto indesiderato o portano ad una perdita significativa. Diversamente il concetto di incertezza dovrebbe attenere ad uno stato di conoscenza limitata in cui è impossibile descrivere esattamente lo stato esistente, i risultati futuri o più di un risultato possibile.
Già da queste prime righe viene peraltro da chiedersi se l’andamento delle variabili finanziarie tradizionali (corsi di borsa, prezzi dei titoli a reddito fisso ecc..) sia da annoverare all’interno del concetto di rischio (e quindi studiabile attraverso modelli matematico-statistici) o rientri in parte in quello di incertezza (su cui i ragionamenti diventano molto più labili).
Ad ogni modo, se restringiamo il campo agli investimenti in strumenti finanziari, è facile comprendere come il concetto di rischio si declini poi in tante diverse accezioni: rischio di credito, rischio di liquidità, rischio di tasso di interesse, rischio di cambio ecc… ognuna caratterizzata da una propria misura (rating, duration, spread denaro-lettera).
D’altra parte, è anche vero che nel mondo finanziario il concetto di rischio venga poi ridotto a due metriche essenziali:
- La standard deviation, ovvero la volatilità misurata in una prospettiva storica come media degli scarti al quadrato (e sottolineiamo al quadrato[1]) dei rendimenti realizzati rispetto al rendimento medio
- Il beta, ovvero la misura della covarianza dei rendimenti di un titolo (o di un portafoglio) rispetto al mercato di riferimento diviso la varianza del mercato stesso. E’ anche noto che il beta rappresenta il rischio sistematico, ossia quello non eliminabile attraverso la diversificazione[2].
Su queste due metriche ci sarebbe molto da dire, ma in sintesi ritengo essenziale osservare quanto segue. Innanzitutto, se ragioniamo in termini strettamente teorici, si dovrebbe sempre parlare di rischio atteso e, di conseguenza, le metriche di cui sopra dovrebbero essere stimate in un’ottica forward looking. Ma se anche si ipotizzasse che il loro calcolo su basi storiche sia una buona proxy della loro rilevanza futura, rimane pur sempre da decidere (e non vi è una soluzione univoca) quale periodo di riferimento prendere in considerazione (gli ultimi 36 mesi come fa Morningstar?).
Ora, in merito al rapporto rischio-rendimento (entrambi attesi), si è soliti pensare che al crescere dell’uno anche l’altro cresca. Ciò è teoricamente da ricondurre al ben noto Capital Asset Pricing Model (CAPM) del premio nobel Sharpe, sebbene sia da decenni risaputo che tale modello nella realtà non funziona. Si tenga peraltro presente che il CAPM ipotizza che al crescere del rischio sistematico (beta) il rendimento atteso aumenta; non è invece contemplata la volatilità (standard deviation), che invece deve essere ridotta al massimo attraverso la diversificazione.
Ma è proprio vero (su base storica) che al crescere del rischio il rendimento cresce linearmente? Yuval Taylor, in un articolo del 2018 pubblicato su Seekingalpha[3], ipotizza contrariamente al pensar comune che la relazione sia di tipo curvilineo, ossia, al di sopra di una certa soglia, un aumento marginale del rischio non comporti necessariamente un aumento marginale del rendimento, ma anzi il contrario.
Senza volere smontare i pilastri delle credenze comuni, mi permetto comunque di riportare un semplice grafico di fonte Vanguard.
Il grafico, costruito sul periodo 1926-2016 e per il mercato americano, illustra ciò che tutti normalmente pensiamo. Più si accetta il rischio, ovvero più ci si sposta verso un portafoglio composto da azioni, più la volatilità dei possibili rendimenti aumenta, ma il rendimento medio cresce anch’esso. Viceversa, se si vuole rischiare poco, spostandosi su un portafoglio composto solo da obbligazioni, avremo una minore variabilità dei rendimenti ma anche un rendimento medio più basso.
Tutto come previsto allora? Non proprio; perché il problema è che il grafico si ferma al 2016. Se consideriamo la situazione attuale, specie in Europa dove i tassi negativi sui titoli più sicuri la fanno da padrone, è facile intuire che la parte sinistra del grafico sia oggi irrealizzabile.
La percezione del rischio: quando e quanto ci posso perdere?
A questo punto è però essenziale chiedersi se i concetti di cui sopra, su cui tanto ci si arrovella tra gli operatori di settore, siano in linea con quanto percepisce l’investitore retail. La risposta è un secco no.
Sono infatti convinto che se si chiedesse ad un campione molto ampio di investitori retail: “Cosa significa per te rischio?”, la risposta più comune sarebbe: “il rischio è che ci perdo!”.
Gli investitori retail non sono quindi primariamente interessati alla volatilità dei rendimenti o al beta del loro portafoglio; per loro il concetto di fondo è che se investo 100 e dopo un anno mi ritrovo con 95 ho perso!
Ecco allora che una misura di rischio più congeniale al cervello del cliente retail sarebbe il VAR (valore a rischio o value at risk), ossia la stima della massima perdita potenziale che una determinata posizione di investimento può subire in un certo arco temporale con una certa probabilità di accadimento, o il Conditional Var se vogliamo essere più sofisticati[4]. Naturalmente con tutti i limiti che il VAR e il CVar possono avere viste le difficoltà della loro misurazione. E comunque si tratterebbe di una stima, mentre l’investitore retail percepisce essenzialmente quanto realmente avviene.
La percezione soggettiva del concetto di rischio che hanno gli investitori retail conduce purtroppo ad una serie di distorsioni cognitive di non poco conto.
Facciamo alcuni esempi.
Innanzitutto, il rischio viene generalmente concepito in termini nominali e non reali. Se ad un investitore retail si presentasse una soluzione finanziaria che prevede un investimento iniziale di 100 che con certezza assoluta dopo un anno porta ad avere 101, dopo due anni 102, dopo tre anni 103 e così via, egli considererebbe probabilmente tale soluzione totalmente priva di rischio.
In realtà la proposta in esame è alquanto “meschina” per due motivi: a) il rendimento è decrescente nel tempo (il primo anno ottengo 1%, il secondo lo 0,99%, il terzo lo 0,98% ecc..): b) con un’inflazione positiva seppur minima, ammettiamo dell’1%, dopo il secondo anno il mio potere di acquisto andrebbe a diminuire; l’investimento proposto mi fa diventare sicuramente più povero!
Un secondo aspetto attiene invece alla effettiva realizzazione delle perdite; essa può infatti avvenire a scadenza nel caso di strumenti con vita residua definita (obbligazioni, titoli di stato, ma anche certificates e derivati), ovvero nel durante ed in ogni momento se decido di vendere lo strumento prima della scadenza (e questo vale anche per azioni, fondi comuni di investimento, ETF ecc..).
Qui l’esempio più calzante è rappresentato dall’investimento in titoli di stato a tasso fisso (il caro vecchio BTP). Se un investitore compra un BTP quinquennale a 100, e dopo un anno il prezzo del BTP è sceso a 90, vuoi per un aumento del rischio di credito (aumento dello spread), vuoi perché i tassi di interesse si sono nel frattempo alzati (rischio di tasso), siamo di fronte ad una potenziale perdita. Naturalmente, fintantoché l’investitore non vende il titolo, ma decide di tenerlo fino a scadenza riottenendo il 100 investito (ipotizzando ovviamente che lo Stato non ristrutturi il debito), la perdita non viene realizzata e l’investitore percepisce (erroneamente) di non avere corso alcun rischio.
Peccato, però, che la stessa logica percettiva non vale purtroppo quando si investe in azioni.
L’investimento in azioni può infatti portare a delle perdite, ma ciò si verifica solo in determinate situazioni e cioè:
a) se investo in singoli titoli posso avere delle perdite se la società in cui ho investito va in fallimento, ovvero se il suo prezzo scende così tanto da non potere più sperare che esso torni al livello di acquisto;
b) viceversa, se investo in un portafoglio azionario ampiamente diversificato, ad esempio un indice globale (MSCI World, S&P500, Eurostoxx 600), anche a fronte di forti oscillazioni al ribasso del valore dell’indice la perdita si verifica se, preso dal panico, decido di uscire dall’investimento e di non aspettare che l’indice, come normalmente avviene, torni al suo valore di acquisto.
Non è infatti possibile che l’indice fallisca e che il suo valore si annulli totalmente!
In questo senso, quando si investe in indici azionari quello che più dovrebbe interessare agli investitori retail non è tanto la volatilità dei rendimenti, ma l’ampiezza dei potenziali drawdown ed i relativi tempi di recupero.
Al riguardo proviamo a fare alcuni semplici ragionamenti. Nella tabella sottostante sono riportati i rendimenti dell’indice S&P500 dal 1957. Come è possibile osservare, vi sono degli anni in cui il rischio di realizzare delle perdite è effettivamente elevato: su 62 anni di calendario vi sono ad esempio 4 anni in cui si arriva a perdere più del 15%. Periodi alquanto problematici sono: il 1957 (-14,31%), gli anni 1973-1974 (-17,37% e -29,72%), gli inizi del nuovo millennio, anni 2000-2001-2002 (-10,14%, – 13,04%, -23,37%), e il famigerato 2008 (-38.49%).
Che cosa sarebbe successo se un investitore, molto sfortunato, avesse investito proprio all’inizio di questi malaugurati periodi? Quanto tempo ci avrebbe messo per vedere il proprio investimento tornare in pari?
Investendo all’inizio del 1957, già alla fine del 1958 si sarebbe ottenuto un rendimento positivo; investendo all’inizio del 1973 (e portandosi a casa anche il crollo del 1974), ci sarebbero voluti 8 anni per recuperare il proprio investimento; investendo all’inizio del 2000 (e subendo la discesa del 2001 e del 2002) alla fine del 2007 si sarebbe praticamente tornati in pari; investendo all’inizio del 2008, dopo 6 anni si sarebbe realizzata una performance positiva non minimale.
Certo, i rendimenti passati non dicono nulla dei rendimenti futuri. Ma è facile comprendere che con un adeguato orizzonte temporale la possibilità di realizzare una perdita diminuisce[5]. Ancor di più, ed ovviamente, se si ipotizzasse di partire con un piano di accumulo nei momenti più sbagliati i tempi di recupero sarebbero ancora più corti.
In conclusione
Il momento che stiamo vivendo è più che anomalo; i tassi di interesse negativi sono una vera e propria eresia finanziaria. In tale situazione, gli investitori retail dovrebbero essere guidati a comprendere dove sta veramente il rischio, e quando esso si manifesta veramente. In particolare:
- Se tengo i soldi sul conto corrente a tasso zero sono più che certo che mi sto impoverendo.
- Se investo in titoli in titoli di stato posso perderci nel caso in cui fossi costretto a venderli prima della scadenza o nel malaugurato caso di una ristrutturazione del debito. Se investo in obbligazioni bancarie idem.
- Se compro un immobile il prezzo può scendere anche drasticamente.
- Se investo in maniera diversificata i rischi di cui sopra si riducono
- Se investo in indici azionari internazionali il valore del mio investimento non andrà mai a zero
- Se investo in indici azionari internazionali non realizzo una perdita finché non vendo
- Se faccio un PAC attenuo le oscillazioni, riduco i drawdown e accorcio i tempi di recupero
- Se non mi faccio prendere dal panico sono già a metà dell’opera
- Se pianifico, il mio vero problema è quello di incorrere in rischi puri e non in rischi finanziari
- Se ho un buon consulente magari è meglio
[1] Al riguardo si veda: Daniel G. Goldstein, Nassim Nicholas Taleb We Don’t Quite Know What We Are Talking About When We Talk About Volatility
[2] Detto in altri termini: il mercato ti premia con un maggior rendimento atteso se ti assumi un rischio, quello sistematico, che non può essere eliminato con la diversificazione.
[3] https://seekingalpha.com/article/4211715-strange-relationship-of-risk-and-reward
[4] Il CVAR-Conditional Value at Risk o ES-Expected Shortfall rappresenta una stima delle perdite che ci si attende, tenendo in considerazione tutte le possibili perdite che superano la soglia del VAR stesso
[5] Ovviamente, e ad onore del vero, il calcolo dovrebbe comunque considerare un raffronto con un ipotetico investimento alternativo. In altri termini, se investo nello S&P500 e dopo 8 anni sono semplicemente tornato al valore iniziale investito, dovrei tener conto che in quegli anni avrei potuto comprare, in alternativa, dei titoli di stato ed ottenere un relativo guadagno. Tuttavia, vista l’attuale situazione di tassi negativi, il raffronto non porterebbe a considerazioni differenti.
Reference Shelf
- https://seekingalpha.com/article/4211715-strange-relationship-of-risk-and-reward
- Daniel G. Goldstein, Nassim Nicholas Taleb We Don’t Quite Know What We Are Talking About When We Talk About Volatility
Si ringrazia il Professor Crespi che abbiamo voluto ospitare sulle pagine di questo blog. (NDR)
STAY TUNED!
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