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Italia ad un bivio: vicolo cieco o impegno comune per uscire dal tunnel della recessione cronica?

Scritto il alle 17:01 da paolo41

CRISI ITALIA: un’eccellente, equilibrata e critica analisi dello stato dell’economia italiana e del conflitto sociale del Bel Paese, che mette a nudo le caratteristiche e le debolezze di un sistema che ci porterà…al nulla più assoluto (se non si interviene subito). Guest post by Paolo41

Ho fatto necessariamente tesoro delle mie esperienze di lavoro e delle molte letture e pensieri di altri che ho avuto occasione di aggiungere alle mie conoscenze professionali.
Non volendo analizzare i variegati aspetti che, spesso, fanno parte dei nostri commenti e discussioni sul blog, mi sono concentrato su tre fattori che, a mio avviso hanno condizionato e stanno ancora condizionando l’economia mondiale, il primo è il dominio della “knowledge“, il secondo è quello che viene definito come “capitalismo di stato”, il terzo (che ci riguarda più direttamente e che è la mia angoscia) è la mancata realizzazione di una vera unione europea e il conseguente effetto perverso dell’euro sui paesi periferici dell’EU, come il nostro.

KNOWLEDGE

L’economia del nostro paese fino a qualche anno fa si basava, in prima approssimazione, su quattro “pilastri” industriali:

a) l’auto,

b) il cosiddetto “bianco”,

c) l’edilizia

d) e il turismo,

oltre naturalmente alle importanti realtà delle aziende a partecipazione statale. Non trascurabili l’agroalimentare (Barilla in primis), la meccanica in generale, il tessile, l’industria delle calzature e della pelletteria,la “moda” in generale, quella del mobile e alcune specifiche aziende, in primis Ferrero nel dolciario. Se, inoltre, consideriamo l’indotto delle grosse aziende e un pianeta di medie e piccole industrie l’Italia si connotava come uno dei paesi aventi uno dei più validi tessuti industriali.

Non mi sembra il caso di mettersi ad analizzare l’evoluzione dei singoli settori industriali sopra elencati in quest’ultimo ventennio, anche perché la fotografia della realtà odierna la conosciamo tutti. Ho cercato invece di selezionare i macro fattori che sono stati catalizzatori del nostro declino.

I primi passi verso la più o meno utopica società post-industriale (inizio anni 80 a spanne) sono stati caratterizzati dalla capacità di immettere sul mercato prodotti sempre più aggiornati e innovativi con continui miglioramenti alla produttività e alla flessibilità del processo. Ciò ha comportato investimenti su software sempre più sofisticati nei reparti tecnici per aumentare la velocità di progettazione e sperimentazione. In parallelo le automazioni di processo si sono estese sempre di più con la conseguenza di ridurre la mano d’opera in assoluto, anche se è stata quella meno qualificata che ha lasciato il posto a operai/tecnici sempre più skilled, capaci di affrontare e migliorare le tecnologie sia di prodotto che di processo.

Tre sono i parametri dominanti su cui si basa il così detto “miglioramento continuo”: contenere i TEMPI di qualsiasi azione sia in progettazione che in produzione, mantenere una continua attenzione alla riduzione dei COSTI e al miglioramento della QUALITA’, quest’ultima intesa non più come controllo del prodotto e del processo ma come azione preventiva per progettarla direttamente nel prodotto e nel processo. I suddetti parametri si integrano perfettamente e il miglioramento di uno comporta l’automatico miglioramento anche degli altri.
I giapponesi, paradossalmente seguendo consulenti americani (es. Feigenbaun), sono stati i primi ad applicare tali procedure, guadagnando competitività nei confronti delle altre economie e continuano a mantenere un indiscusso vantaggio. La crisi giapponese ha radici finanziarie, ma l’industria, ormai globalizzata, ha tuttora uno scalino di eccellenza rispetto alla concorrenza.

Ho avuto, agli inizi degli anni ‘90, l’occasione di fare un’ampia analisi su costi e margini e impostazioni produttive fra case automobilistiche europee (incluso Italia), americane e giapponesi. Quest’ultime pur avendo un costo per addetto superiore ai concorrenti, presentavano un valore aggiunto per addetto nettamente più elevato. I fattori determinanti, tuttora validi, sono l’alta velocità delle automazioni nello stampaggio,un ritmo assolutamente impressionante nell’automazione della lastratura della scocca (caratterizzata da una limitata flessibilità per cambio modello), nella verniciatura e nel montaggio. Altrettanto dicasi per le automazioni delle lavorazioni dei componenti meccanici e nel montaggio degli stessi. Non tutti i produttori giapponesi avevano la produzione dei cambi di velocità in casa.
In altre parole la produzione era molto decentrata, sia per i componenti della vettura che per la meccanica, verso grosse aziende di componenti specializzate e altamente automatizzate (anche in quest’ultime impressionanti velocità di esecuzione). In una visita alla Nippondenso (il più importante componentista della Toyota), dove ogni linea di prodotto era caratterizzata da lavorazioni completamente verticalizzate, cioè dalla lavorazione delle materie prime fino all’assemblaggio del componente finale, stentavo a trovare operai lungo i processi, se non qualche manutentore specializzato a risolvere eventuali, comunque rarissimi, intoppi sulle linee.

Analisi analoghe a quella sopra menzionata hanno di lì a poco iniziato a circolare e tutti i costruttori si sono mossi gradualmente verso impostazioni produttive simili a quelle giapponesi. Alcuni hanno scelto automazioni più flessibili, ma decisamente meno veloci, specialmente in lastratura, necessariamente più costose a parità di volumi di produzione; tutti comunque hanno progressivamente portato verso i produttori di componenti tutte le lavorazioni che non fossero stampaggio, lastratura, verniciatura e montaggio. Salvo eccezioni, le forniture di componenti che, specialmente in Europa, erano suddivise fra più componentisti per sfruttarne la concorrenza sui prezzi (spesso a scapito della qualità), passano ad un unico fornitore per avere efficienza dall’aumento dei volumi e favorire l’automazione. Lo scopo era quello di creare una simbiosi con il fornitore, evitare sacche di inefficienza sia nella fase progettativa che in quella produttiva ed eliminare i soprusi tecnici ed economici che molti costruttori esercitavano nei confronti dei fornitori.

I giapponesi, nel frattempo, si stavano sempre più concentrando sui problemi della logistica degli approvvigionamenti dei componenti e della consegna delle vetture ( Kamban, just in time, etc), limitando drasticamente il working capital. Per inciso, è noto a tutti come l’ultimo terremoto ha messo in crisi, per un certo periodo, le aziende giapponesi (anche quelle localizzate in paesi esteri) per il blocco di alcuni produttori di componenti insediati nelle zone terremotate.

E’ ovvio che alla base di tutto questo è necessario un enorme Knowhow di prodotto e di processo e (quarta regola) una profonda conoscenza delle esigenze del mercato e delle fasce di consumatori, per anticipare i concorrenti con soluzioni innovative e nuovi modelli. Chi dieci anni fa considerava il mercato dell’auto un mercato maturo ha dovuto ricredersi perché anche un mercato saturo necessita di nuovi modelli come sostituzione a quelli più vecchi e, comunque, ai mercati saturi se ne sono aggiunti di nuovi e alcuni di notevoli dimensioni come la Cina e altri si stanno sviluppando. Chi ha saputo e continua a cogliere queste opportunità è al top fra i produttori, chi ha cominciato a derogare dalle regole sopra descritte, a ritardare nuovi modelli, a trascurare la qualità, a utilizzare attrezzature obsolete, a penalizzare fornitori e concessionari nei pagamenti, a perdere le occasioni di inserirsi con prodotti appetibili sui nuovi mercati, annaspa e avrà senz’altro difficoltà a riallinearsi alle marche più competitive.

Quelli che hanno interpretato il knowhow acquisito come un fattore determinante hanno saputo creare intorno allo stesso una Knowledge che spazia oltre la semplice progettazione e costruzione di una vettura e riesce a espandersi sul concetto molto più ampio di mobilità. Meno di due anni fa ( october fest 2011) sono stato invitato da un vecchio amico tedesco ( che alla mia età fa ancora il consulente… quasi per hobby.. presso l’azienda dove ha lavorato per più di 40 anni) a visitare il Centro di tecnologie avanzate di una nota casa automobilistica tedesca e ho avuto occasione di vedere un prototipo della città del futuro in termine di mobilità e di mezzi di trasporto. Eravamo quasi nella fantascienza, ma il paradosso è che il progetto si basa tutto su tecnologie già oggi esistenti. Pensate, mentre continuano a sfornare nuovi modelli e innovazioni a ritmo incalzante nel presente, con la mente sono già collocati nel futuro. Per contro, pensate a quanti nuovi modelli e quanti investimenti hanno realizzato negli ultimi anni le case automobilistiche che sono ormai “in fondo al gruppo”, in paragone alla dinamicità delle case automobilistiche che stanno dominando i mercati????

Ho portato l’esempio dell’auto, che mi sembra il più calzante nel palcoscenico del nostro paese, per contro potrei citare esempi di aziende italiane (anche nell’indotto auto, come Brembo) che hanno seguito le “regole” indicate all’inizio (Knowledge+ tempo/qualità/costi +conoscenza nuove esigenze della domanda) e che hanno saputo svilupparsi a livelli competitivi sui mercati internazionali.
Analoga situazione a quella dell’auto, ma forse con minori criticità, si riscontra per la produzione di elettrodomestici (il cosidetto “BIANCO”); negli ultimi vent’anni è stato un debacle generalizzato. Per dare un’idea riporto un articolo del Sole-24ore del luglio 2012. Ovviamente da allora la situazione è ulteriormente peggiorata, mentre anche in questo settore sono aumentate le quote di concorrenti che importano i loro prodotti avvalendosi di costi decisamente competitivi e di elevata qualità. Ho scelto, fra i vari post che illustrano la crisi in essere, uno che mi sembra meglio quantificare il problema.- CLICCA QUI

EDILIZIA

Uno sfracello!! Penso che sia il settore che abbia mandato a casa il più alto numero di lavoratori, indotto incluso si stima fra i 600000 e i 650000!!! Solo nel secondo semestre 2012 c’è stato un calo dei permessi edilizi del 22% rispetto al semestre precedente: 22.500 contro 27450 ( a titolo di paragone, 75.000 del 2° semestre 2006), le aste giudiziarie sono praticamente deserte, di ottenere un mutuo non se ne parli, su un totale di sofferenze bancarie che superano il 13% dei crediti ( e stanno aumentando) circa un terzo sono relative a imprese delle costruzioni, i tempi di compravendita sono triplicati,i prezzi ( quelli reali non quelli indicati dalle agenzie di vendita) sono calati di oltre il 20%. E non possiamo tralasciare gli effetti sull’indotto come acciaio, mobili, elettrodomestici, etc. Nessuno lo vuol dire, perché si ha paura solo a nominarla, ma ci sono tutte le premesse per avere lo scoppio di una bolla simile a quella già avvenuta in altri paesi.
Per una lettura più approfondita allego uno dei tanti post sulla crisi dell’edilizia:

Penso che qualcuno si chiederà cosa c’entri la Knowledge nel settore delle costruzioni edilizie?? La knowledge non si limita alla capacità di costruire le abitazioni rispettando le regole menzionate all’inizio; come abbiamo accennato per l’auto, occorre una profonda conoscenza anche del mercato immobiliare ed essere attenti osservatori dei trend delle congiunture economiche. Facile a dirsi è la risposta di diversi imprenditori edili, e aggiungono: tutti costruivano, la domanda era elevata. Errato, i primi cali di domanda sono riportabili a fine 2005/inizio 2006 e conosco aziende che mentre limitavano gli investimenti, si sono indirizzati su immobili di dimensioni più contenute e più abbordabili, mentre altre hanno trascurato del tutto i segnali del mercato ed hanno continuato ad aumentare lo stock di invenduto e il debito presso le banche, quest’ultime colpevoli al pari delle aziende che aumentavano il debito.

TURISMO

Ci siamo seduti sugli allori, pensando che la bellezza del nostro territorio, il patrimonio artistico e le testimonianze dei monumenti storici fossero sufficienti per continuare a speculare sul turista, trascurando che altri paesi hanno organizzato offerte turistiche molto più appetibili e concorrenziali delle nostre e con una disponibilità al “servizio” che molti dei nostri operatori turistici hanno dimenticato. Credo che il post QUI SEGNALATO, come molti altri, dia un’immagine esauriente della situazione

AZIENDE A CONTROLLO STATALE

Lascerei perdere l’Enel, che come azienda di servizio ha i prezzi della vendita di energia e gas stabiliti dall’autority; purtroppo ha i costi gonfiati dalla presenza delle lobbies politiche ed è, inoltre, deprecabile che i managers abbiano stipendi spropositati. La riduzione dei costi di gestione comporterebbe anche un contenimento delle tariffe applicate al consumatore italiano.
ENI ha, più o meno, gli stessi problemi sulla gestione dei costi e degli stipendi ma ha ottimi profitti (anche se in calo) e dividendi. Finmeccanica e Fincantieri boccheggiano, e anche loro avrebbero bisogno di un po’ di pulizia interna. In sostanza facendo pulizia in queste aziende a controllo statale e rivedendo la loro posizione strategica, si potrebbe realizzare un sensibile miglioramento dei margini.
Poste Italiane e Rai andrebbero privatizzate, specialmente quest’ultima che perde con costanza ed è motivo di continuo contrasto delle forze politiche; un canale pubblico è più che sufficiente, le altre due reti principali e tutto il resto andrebbe privatizzato.
La cessione di Telecom Italia, tutto considerato, è stata positiva, visti gli sviluppi della telefonia, anche se la vendita iniziale ha “favorito” imprenditori che, comprandola a debito, hanno succhiato elevati stipendi e dividendi aumentando oltre misura l’indebitamento dell’azienda. Oggi Telecom ha bisogno di vendere la rete e di trovare un partner moderno e con disponibilità di risorse che sia in grado di sostituire la decotta Telefonica.

Una prima drammatica sintesi di queste considerazioni ci fa capire che dei quattro pilastri iniziali, andare ad investire sull’auto, visto lo scenario concorrenziale, comporterebbe grossi rischi in termini di un adeguato ritorno degli investimenti; l’alternativa di un possibile intervento dello STATO, quale quello di Hollande che sta cercando di rimettere in piedi Peugeot, comporta l’elevato rischio di buttare al vento i soldi dei contribuenti.

Anche il “bianco” ha innegabili criticità, ma il prodotto è valido tecnicamente e avrebbe bisogno di un sostanziale aiuto in termini di incentivi e di contenimento dei costi. Ma anche in questo caso si opererebbe in un’ottica di sostituzione dell’esistente, perché l’edilizia è al momento ferma. Quest’ultima può avere qualche possibilità di ripresa attraverso gli incentivi alle ristrutturazioni, una volta che saranno ridotte al minimo le migliaia di richieste burocratiche che accompagnano una domanda di inizio lavori. Comunque anche per l’edilizia è difficile ipotizzare una ripresa concreta nei prossimi due/tre anni.

Capitalismo di Stato

Quando si parla di Capitalismo di Stato viene facile accostare tale definizione ad un governo che controlla, coordina e, ove necessario, interviene direttamente nello sviluppare l’economia di una nazione. Di prima battuta credo che ognuno risponderebbe che la Cina è il più evidente esempio di tale definizione. Forse è troppo semplicistico, perché non basta produrre a costi supercompetitivi, ma è essenziale “difendere” ciò che viene prodotto: ciò significa appropriarsi velocemente delle tecnologie (prodotto e processo), investire nella formazione e nella ricerca e nel frattempo barrierare le importazioni di prodotti concorrenziali con la forza della diplomazia (se vuoi vendere, vieni a produrre in casa nostra), con la valuta e, se necessario, con i dazi.

Ci rendiamo subito conto che nel sistema cinese esistono troppe forzature per reggere un consolidamento nel tempo, essenzialmente per la mancanza di un sostegno tecnologico che possa un domani sostituire le attuali produzioni su licenza. In altre parole ci troviamo davanti a un sistema che produce in elevatissima percentuale per terzi. Attenzione però a non demonizzarlo; finora ha funzionato anche se affiora qualche crepa di cui non conosciamo, ammettiamolo sinceramente, le vere dimensioni.

Ci sono, in compenso, altre storie, anche se di dimensioni più contenute di quella cinese, che rappresentano tentativi più o meno riusciti di pianificare lo sviluppo economico del proprio paese. In alcune occasioni, queste storie talvolta (se non spesso) sono offuscate da casi di corruzione e collusione, ma il concetto fondamentale del Capitalismo di Stato è che lo Stato, attraverso suoi potenti e autorevoli (inteso come autorevolezza) enti, dialoga e pianifica, a braccetto con l’industria e con gli istituti di ricerca strettamente collegati all’industria stessa, lo sviluppo industriale di una nazione, selezionando i settori ove investire.
Se lasciamo da parte il disastro finanziario in cui si è avviluppato il Giappone negli anni ‘90, questo paese rappresenta, a mio avviso, dal lato della pianificazione industriale, l’esempio classico di come dovrebbe funzionare il coordinamento da parte dello Stato. E badiamo bene, la mano dello Stato è discreta, non è invasiva nella proprietà delle singole Keiretsu, anzi rispettosa come, a loro volta i Keiretsu sono rispettosi della autorevolezza delle funzioni dello Stato.

All’estremo opposto possiamo menzionare tentativi, finora miseramente falliti, di portare avanti un Capitalismo di Stato come il Brasile, il Venezuela e perché no, la Russia, tutti paesi salvati dalla enorme disponibilità di materie prime ma privi della cultura e della necessaria coesione che richiede lo sviluppo di un piano economico nazionale.
Da sottolineare un fattore comune: tutti questi paesi sono “padroni” della propria valuta, importante tool che garantisce una indubbia flessibilità nei momenti più difficili.

Tolta subito l’illusione che una pianificazione allargata possa concretarsi nell’EU nel suo insieme, non si può non sottolineare che anche nei paesi europei dove esiste il senso di appartenenza ad uno Stato, una cultura dell’ordine e un dialogo stretto fra regioni o cantoni o lander che dir si voglia, la partecipazione del sistema bancario e, non ultimo, un sindacato partecipe e non antagonista, si percepisce l’esistenza di una manovra coesa a migliorare la situazione economica del paese stesso e di conseguenza dei cittadini. Menzionabili la Svizzera, la Germania (che la valuta se l’è fatta a proprio uso e consumo), i paesi del nord- Europa (con la Norvegia in particolare, baciata dalle risorse petrolifere i cui introiti sono stati sapientemente investiti in fondi gestiti dallo Stato a favore del popolo).

E’ ovvio che non è distinguibile un approccio unico fra i vari paesi, così come l’intervento dello Stato si manifesta in maniera variegata in termini di indirizzo e di autorità. E’ da segnalare il Canada che con sapiente autorevolezza e competenza e con l’aiuto delle classiche istituzioni ( regioni, banche, sindacati,etc) ha saputo rimettere sulla giusta via un’economia che si stava velocemente deteriorando.
Segnalo nel est-asiatico Singapore (forte connubio fra grandi famiglie e Stato) e, a ruota, ma a debita distanza, il Vietnam; il primo è consolidato in un’economia molto legata alle attività finanziarie e sta diventando un centro di riferimento per tutta l’area asiatica. Per il Vietnam è importante sottolineare il fatto che la cultura di base è quella cinese e anche qui c’è una sfrenata volontà di emergere.
Emblematica la Turchia, dove le grandi famiglie che controllano la maggior parte delle attività industriali e finanziarie sono, in un certo senso, paragonabili ai keiretsu giapponesi. Avendo avuto rapporti di lavoro con due di queste famiglie, posso affermare che il rapporto con lo Stato è molto sentito ed è impostato su un secolare sentimento di reciproco rispetto. La Turchia oggi rappresenta una delle economie mondiali più sviluppate e la posizione geografica in cui si trova è un altro fattore di potenziale ulteriore sviluppo. Tale posizione geografica ha indubbiamente anche risvolti negativi a livello geopolitico, aspetto che non fa altro che cementare i rapporti fra economia e Stato.
La Francia ha pensato di interpretare la pianificazione economica con il controllo “strategico” di diverse aziende, ma non si nota una chiara coesione fra Stato e aziende in una vera strategia di sviluppo. Ultimamente il governo è intervenuto a sostegno della casa automobilistica Peugeot (contravvenendo alle regole EU), ma per le considerazioni prima esposte sulle “regole” che condizionano i costruttori di auto, è molto probabile che siano soldi buttati al vento.
STATI UNITI. La fotografia è arcinota: la prima economia mondiale, dove comanda il capitalismo delle aziende con le loro potenti lobbies. Lo Stato interviene solo nei momenti di crisi dell’economia o per interventi bellici mirati al “salvataggio” delle democrazie e/o a difesa dei propri interessi. Credo che non valga la pena dilungarsi più di quel tanto su questo argomento. Da notare che le multinazionali hanno trasferito la maggior parte delle attività produttive in paesi a basso costo di mano d’opera e a basse tassazioni (gli utili realizzati all’estero non sono generalmente tassabili in USA se non vengono reimportati); indubbiamente è difficile condannare la logica del profitto portata all’estremo che connota il mondo americano, come è altrettanto indubbio che gli effetti collaterali sono ricaduti sul mondo del lavoro locale. Sono posti persi e difficilmente recuperabili. Possiamo dire che gli Usa rappresentano l’antitesi più evidente al Capitalismo di Stato.

La logica del discorso vorrebbe che ora si esaminasse la situazione dell’Italia, ma è così difficile parlarne perché innanzitutto bisognerebbe “identificare” dov’è lo Stato! Teoricamente abbiamo gruppi di politici, chiamati partiti, in continua diatriba fra loro, nonostante gli sforzi del vetusto presidente Napolitano. Questi politici e l’immenso intreccio di enti, società mangiasoldi, doppie funzioni, istituzioni, centrali, regionali, provinciali e comunali dovrebbero rappresentare lo “stato”, trascurando il fatto che all’interno di questa massa di impiegati e di managers superpagati ci sono altri stati non legalizzati (varie mafie) molto più efficienti e quasi sempre legati altrettanto illegalmente con le varie branchie dello stato legale. Poi ci sono le lobbies ( dagli avvocati ai tassisti, dai commercialisti ai notai, e chi più ne ha più ne metta) con forti aderenze politiche nell’impedire qualsiasi riforma. Non ultima abbiamo una burocrazia asfissiante che deve giustificare il posto che occupa (generalmente assegnatogli da un partito). La naturale domanda è: ma da dove partiamo per poter fare una minima pianificazione economica?? Siamo diventati un paese di tappabuchi, dove ognuno pensa a se stesso e “spera che io me la cavo”, senza avere una minima cognizione dell’insieme di diritti e doveri che regolano il “senso dello Stato”.

L’industria, nella sua accezione più larga, è lasciata a se stessa e il cosidetto “stato” fa finta di intervenire quando ci sono i sempre più numerosi casi di aziende che sono costrette a chiudere l’attività: per fare cosa nessuno lo sa, salvo accettare nuova cassa integrazione e nuovi prepensionamenti e nuovi esodati. In compenso, sempre lo stesso Stato non perde occasione per tassare l’industria con ogni tipo di balzelli, quando il nostro paese è circondato da nazioni che offrono tasse ridotte, facilitazioni agli investimenti e costi del lavoro decisamente più competitivi. Mi meraviglio quando questi nostri incompetenti politici dichiarano che si può ancora fare industria in Italia; probabilmente non hanno approfondito la realtà o, forse, sperano che i problemi si risolvano per mano divina.
Semplificando, oggi esistono in Italia due macro classi di imprenditori:

1) quelli che hanno già saputo espandersi sui mercati esteri, sia dal punto di vista commerciale che industriale,

2) e quelli che sono in procinto di farlo.

Tutti gli altri, teoricamente, non sono più imprenditori perché potenzialmente sono destinati, prima o dopo, a chiudere i battenti.
Ed è un vero peccato perché questo benedetto paese avrebbe ancora delle potenzialità: il turismo innanzitutto, l’agricoltura e l’industria agroalimentare, centri di alta tecnologia in campo medico e farmaceutico, nei settori della biotecnologia e dell’information tecnology, nella meccanica, nella moda, nei prodotti del lusso (se non ce li comprano prima), e nessuno me ne voglia se non li elenco tutti.

Ma per pianificare e implementare un primo sviluppo occorrono investimenti, ma di soldi lo Stato ( con la maiuscola per benevolenza) dichiara di non averne, perché legato mani e piedi dalle imposizioni dell’EU e del burattinaio teutonico.

In altre parole non siamo più liberi di fare alcunché; l’unione europea ci strozza e la mancata disponibilità di una moneta propria ci impedisce di fare qualsiasi tentativo di pianificazione. Qualcuno dirà: meglio così perché non si sarebbe capaci, come in passato, di rendere fruttiferi gli investimenti. Forse ha ragione, perché non c’è più fiducia nei governi, di qualsiasi colore essi siano, perché tende a subentrare la rassegnazione.

Che facciamo allora? rivolgendomi in particolare ai giovani, ci arrendiamo o, come dice spesso Lampo, facciamo quello scatto necessario per dare una scossa a questo paese?

 

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8 commenti Commenta
lampo
Scritto il 9 Agosto 2013 at 15:12

Eccellente analisi… da appendere al frigorifero (compratene uno più grande 😆 ).

Quanto esposto nel post viene confermato anche da una recente analisi di Cerved Group sui bilanci delle PMI:
http://www.cervedgroup.com/documents/10156/105548/cerved_OssBilanci13_info.pdf

Paolo… ovviamente attendiamo il prossimo post, vista la notevole cultura che possiedi. 😉

Scritto il 9 Agosto 2013 at 15:28

CHAPEAU A PAOLO41 ( e anche Lampo che è un mostro nello scovare news e dati).

Un post che è da condividere a tutti e che TUTTI dovrebbro leggere.

❗ ❗ ❗

lampo
Scritto il 9 Agosto 2013 at 17:23

Recentemente è stata pubblicata anche una ricerca di Mediobanca sul tema:
Qui l’introduzione: http://www.mbres.it/sites/default/files/resources/download_it/dc_rel.pdf

L’intero report si trova qui
http://www.mbres.it/it/publications/financial-aggregates-italian-companies
(in basso ci sono i link per scaricare le varie parti del report)

La sintesi è che mantenere le imprese in Italia diventa quasi un lusso, che non si possono più permettere, visto il calo degli investimenti, produttività, credito, margini operativi, ecc.
In pratica va ancora bene chi vive con la domanda estera… finché il “Made in Italy” viene richiesto.

kry
Scritto il 9 Agosto 2013 at 19:33

lampo,

In pratica va ancora bene chi vive con la domanda estera… finché il “Made in Italy” viene richiesto. Io la penso così “In pratica va ancora bene chi vive con la domanda estera… finché anche gli altri non saranno costretti a copiare dall’Italia.( riferimento alla bilancia commerciale)”. Ciao.

gainhunter
Scritto il 9 Agosto 2013 at 21:25

Ottimo paolo41! Mi hai chiarito alcuni concetti importanti.

Alcune considerazioni:
– quali sono gli enti che sostengono maggiormente e concretamente le imprese (manifestazioni, internazionalizzazione, sostegno alla creazione di poli di ricerca, formazione professionale, promozione del turismo, ecc.)? Province e regioni. E chi ha subito più tagli?
– capitalismo di stato vs liberismo: 1-0. L’Italia si piazza, quasi per necessità (eccessivo debito) tra i liberisti… (purtroppo solo per l’aspetto della partecipazione dello stato nell’economia e non per l’aspetto dell’invadenza dello stato nella vita delle imprese)
– senso di appartenenza allo stato: in Italia non è mai esistito per ovvi motivi (l’unificazione è stata solo un atto burocratico); e se l’appartenenza allo stato è un elemento importante è evidente che la soluzione più semplice e anche “giusta” sta non nell’adattare gli italiani allo stato ma adattare lo stato agli italiani per far sì che venga percepito in modo positivo (quello che i politici chiamano “avvicinare lo stato ai cittadini”), quindi separazione o federalismo spinto (chissà come mai in Germania e Svizzera l’appartenenza allo stato è sentita…); ammettere l’errore, ammettere che l’Italia non è mai esistita, non è unificabile e correre ai ripari
– qual è la differenza, se c’è, tra keiretsu/famiglia turca, lobby e immanicamento? Forse una delle ragioni della non collaborazione tra stato e imprese sta nel fatto che le imprese non fanno o non riescono a fare attività di lobbying (a differenza di altri paesi)?
– mafia, monito all’Europa: dopo aver prosciugato il Sud si è espansa al Nord; quando anche il Nord sarà stato prosciugato dalla crisi, dove pensate che si espanderà la mafia? Dove ci sarà ancora un’economia da mungere, ovvero in Germania.

paolo41
Scritto il 10 Agosto 2013 at 14:19

gainhunter,

Premesso che ho postato questa “lenzuolata” di considerazioni ( talvolta un po’ caotiche) nel tentativo di dare un po’ d’ordine anche al mio pensiero, cercando di scremare una lettura la più semplice possibile della congiuntura economica del nostro paese, purtroppo sempre più intrecciata e complessa.
Volutamente non mi sono addentrato in questioni finanziarie e mi sono limitato a commentare gli aspetti che ho ritenuto più aderenti all’economia reale.
Il tuo commento è condivisibile in toto e, fra l’altro, cerca già di dare un contributo operativo ad un eventuale implementazione di una qualsivoglia pianificazione. Il coinvolgimento delle regioni ( meglio se fossero macro regioni, considerando che ne abbiamo troppe di piccole dimensioni) è essenziale, perché è necessario vivere le problematiche delle aziende locali e favorire, ove possibile, il rafforzamento dei distretti. Ma ammesso che si riesca a costituire dei Centri di Coordinamento Regionali, questi devono essere collegati ad un ente Centrale snello e competente (mi viene in mente il famoso MITI giapponese che dette la stura allo sviluppo di tale paese). I costi di tali Centri, finanziati dallo Stato, non devono far parte del budget gestionale delle regioni, altrimenti, ed hai perfettamente ragione, verrebbero risucchiati nelle spese generali.
Aggiungerei che gli indirizzi di tali centri devono essere, in elevatissima percentuale, tecnici e rivolti al potenziamento delle attività industriali e dei servizi ( non , scusa il paradosso, al miglioramento genetico delle asine del…… puntini per non offendere nessuno). Questa logica, che possiamo definire federale, alimenterebbe la competitività e la conseguente responsabilità ad agire fra le macroregioni.
Le famiglie: paragonabile ai Keiretsu o a quelle turche ce n’è stata una sola: gli Agnelli, nonostante il velleitarismo di DeBenedetti a imitarli. Ambedue, nelle debite proporzioni, si sono sciolte come neve al sole. Mi viene in mente cosa mi disse a proposito un illustre giornalista toscano: ricordati che prima o dopo i “pirati”, nella vita come nell’industria, finiscono per essere sconfitti.

gainhunter
Scritto il 13 Agosto 2013 at 08:21

paolo41,

Concordo.

La cosa indispensabile secondo me è che ci siano trasparenza e pubblicità per quanto riguarda introiti e destinazione delle spese dei vari enti e istituzioni.
Alcune organizzazioni di beneficienza hanno adottato un sistema che mostra al donatore che fine fa ogni euro donato: in che percentuale va ai costi amministrativi e organizzativi e in che % va ai progetti di assistenza/ecc. di cui si occupa l’organizzazione. Lo stato deve fare lo stesso: che fine fa ogni euro di tasse pagato? In che percentuale va ai costi di amministrazione, in che percentuale va a ogni singolo ente territoriale, e ogni euro ricevuto da ogni territoriale in che % va a costi amministrativi e dove e quanto va il resto, e come è ripartito tra le varie funzioni dell’ente?
Ogni contribuente deve poter sapere in 5 minuti dove finisce ogni euro pagato di tasse.

Anche se questo non potrà influire sui fattori esterni che condizionano la nostra economia, perlomeno agirà sui fattori interni e libererà un po’ (un bel po’?) di risorse che verranno utilizzate veramente per l’economia.

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