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TERREMOTO McKinsey sulle BANCHE: il 35% a rischio in caso di recessione

Scritto il alle 09:57 da Danilo DT

Questo è quanto si deduce da un’analisi del noto istituto di consulenza manageriale indipendente

Visto che l’argomento è decisamente spinoso e per certi versi “tellurico”, e siccome non è mia intenzione “aggiungere del mio” ad un’analisi così “aggressiva” , malgrado sia fonte di un report McKinsey,  una delle più note case manageriali indipendenti, preferisco essere molto oggettivo e riportare quanto ritroviamo.

Partiamo dal report: uno studio molto corposo ed approfondito che potete visionare voi stessi cliccando QUI. 
Cosa dice questo report? In realtà nulla che ci sorprende particolarmente, ma va a confermare quanto stiamo dicendo da più tempo. La cosa importante è che oggi queste nostre teorie sono avallate da una società come McKinsey, il che rende tutto decisamente più credibile e concreto.
Ovvero, qui si filosofeggia e si sparano teorie, ma forse non tutto è proprio così casuale, se ancora non lo avete capito.
Detto questo, ecco nel dettagli alcuni passaggi di questo report.

(…) Nel mercato globale il 35% delle banche potrebbe non sopravvivere a una nuova fase di recessione. (…) E c’è di più: il 60% delle banche registra un saldo negativo nel bilancio tra le spese sostenute e la redditività delle operazioni. In questo contesto gli istituti più a rischio sarebbero quindi costretti a cercare la salvezza nella fusione con altre banche. Per le banche, del resto, i numeri non mentono. «A dieci anni di distanza dalla crisi finanziaria globale, sono chiari i segnali che indicano come il settore bancario sia entrato ormai nella fase tardiva del ciclo economico» si legge nel report. «Rallenta la crescita dei volumi e dei ricavi principali mentre nel 2018 il credito è aumentato appena del 4%, il dato più basso degli ultimi cinque anni. Le curve di rendimento si stanno appiattendo e, sebbene le valutazioni siano variabili, la fiducia degli investitori nelle banche si indebolisce ancora una volta». (…)

Quindi, per rendere il ragionamento più potabile per tutti, le banche hanno approfittato di una lunga fase espansiva, hanno ricevuto liquidità a basso costo per un periodo eccezionalmente lungo, hanno investito e hanno guadagnato. Ma ora con il mercato in fase di rallentamento e i prezzi al loro massimo i rendimenti tendono a ridursi. E in un mondo dove l’ammontare delle obbligazioni a tasso negativo – per fare un esempio – ha raggiunto di recente quota 17 trilioni di dollari, ottenere profitti diventa evidentemente sempre più complicato. E dunque? Dunque subentra il fattore costo che per la maggior parte delle banche diventa il principale tallone d’Achille. Quasi il 60% degli istituti, nota McKinsey, ottiene rendimenti inferiori al costo di gestione patrimoniale. A conti fatti, inoltre, quasi il 100% del valore aggiunto registrato dal settore finanziario viene intercettato da appena il 20% degli operatori: una banca su cinque insomma. Le cause sono molteplici e i rimedi vengono da sé.

(…) La presenza geografica (le banche europee, rileva il rapporto, stanno peggio delle colleghe americane che registrano rendimenti superiori del 10%), la dimensione (leggi economie di scala), la diversificazione (tanto per cambiare) e il modello di business (ça va sans dire), sono fattori decisivi. Senza sostanziali cambiamenti, una futura recessione potrebbe solo peggiorare le cose. E ancora, a proposito di queste ultime: «I loro modelli di business sono difettosi, e il senso di urgenza è forte. Per sopravvivere ad una recessione, la fusione con altre banche simili o l’acquisizione da parte di un’altra banca più forte possono essere le uniche opzioni». (…)

La questione pare più pratica che teorica. McKinsey non ne parla apertamente ma la digressione si impone. Dieci anni e più di interventi espansivi con tutte le conseguenze del caso hanno plasmato una situazione anomala in cui le banche hanno dato l’impressione di dipendere forse patologicamente tanto dagli stimoli degli istituti centrali quanto dalla crescita permanente. Ma di perpetuo, si sa, non c’è nulla; specie nei mercati che, notoriamente, funzionano a cicli. Nessuno al momento è in grado di prevedere scenari più o meno complicati.
Intanto però già negli USA sta iniziando a salire la tensione. Per caso vi siete già dimenticati del problema della crisi di breve termine della liquidità, con COPIOSI interventi della FED? (CLICCA QUI)
La Fed è intervenuta massicciamente nelle scorse, con un’operazione che è stata definita un non-QE, ma che è un segnale di pericolo di fronte alla svalutazione del valore nominale dei prestiti a leva. In pratica, lo stesso principio della vecchia crisi dei mutui anche se non necessariamente, e ci mancherebbe altro, con la medesima capacità distruttiva.
Ma torniamo al report: la temuta fine del ciclo espansivo dei mercati – sempre a voler essere pessimisti, è chiaro – potrebbe essere dietro l’angolo. Colpa anche del Fintech, ovvero la tecnologia applicata ai servizi finanziari:

(…) L’espansione del fenomeno rappresenta un’opportunità per le banche. Ma gli istituti incapaci di cogliere l’occasione rischiano di pagare a caro prezzo la loro negligenza. (…) «La crescita della penetrazione della tecnologia digitale si accompagna a una riduzione dei margini di profitto» (…) [Source

Obbligo di innovazione che fatica a prendere il volo nelle vecchie Economie mentre sta diventando protagonista soprattutto per le banche asiatiche. Questo la dice lunga sul ruolo da protagonista che potrebbero avere proprio gli istituti di credito cinesi ed indiani. E la storia insegna, il ruolo delle banche è DETERMINANTE. Un ulteriore punto a favore di chi molto probabilmente dominerà il mondo in futuro.
E per le nostre banche, forse, sarebbe il caso prendere qualche appunto ed adeguarsi quanto prima. Perché il domani è OGGI.
India e Cina in questo senso sono esempi emblematici. E anche le banche occidentali, nel caso, farebbero meglio a prendere appunti. Non si sa mai.

STAY TUNED!

Danilo DT

(Clicca qui per ulteriori dettagli)

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