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Competitività – Delocalizzazione – Declino – Fallimento
GUEST POST: Di questi tempi c’è un gran parlare e discutere dei problemi della finanza, della crisi finanziaria dell’Eurozona, di manovra finanziaria “lacrime e sangue” per tutti.
Economisti di ogni livello, commentatori dei mass media, che man mano diventano più consapevoli di quale disastro stiamo vivendo, ci somministrano il loro sapere e ci raccontano degli accadimenti ormai quotidiani della finanza globalizzata, normalmente con il senno di poi. Ogni luogo di aggregazione, bar, osteria, piazza, fermata di bus, riunioni di famiglia è buona per intavolare discorsi sui fatti che si susseguono a ritmo sempre più incalzante. Se ci pensiamo bene, mai è accaduta una simile situazione, in cui tutti percepiscono di essere coinvolti in un processo di grandi cambiamenti, che si può considerare certamente epocale.
Ma mentre di finanza si discute e scrive molto, poco e mal volentieri si parla di economia reale e soprattutto di un processo, la delocalizzazione con i relativi effetti che in questo decorso ventennio l’ha caratterizzata . Quel poco che si dice, di solito è quanto viene raccontato da commentatori che si fanno una loro idea del fenomeno, e che non sempre corrisponde pienamente alla realtà.
Per meglio dire, i più colgono l’aspetto più evidente del fenomeno, fatto di aziende che chiudono, lavoro che sparisce come per incanto perché va altrove. Cercherò in questo post di coniugare il titolo, in modo da evidenziare la stretta connessione che c’è nei termini che lo compongono. Il proposito è di esprimermi con semplicità, spero di riuscirci.
Competitività
La competizione economica è un concetto ben chiaro nella mente degli operatori che lavorano in un regime di libera concorrenza. Ogni imprenditore, ogni giorno deve darsi da fare per trovare modi e soluzioni idonee a mantenere la propria azienda competitiva nel mercato in cui opera e per farla crescere. Nel momento in cui, per qualche ragione, questo processo virtuoso si interrompe, inizia la decadenza che, sempre più spesso ormai, porta all’insolvenza e alla conseguente chiusura dell’impresa.
Mantenere un’azienda competitiva dipende non solo dalle capacità dell’imprenditore ma, sempre più e sempre più spesso, da condizioni oggettive esterne, non dominabili o gestibili dall’imprenditore.
La globalizzazione dell’economia, che stiamo vivendo, è certamente il fenomeno che ha alterato le vecchie regole in modo molto profondo. Molti ne stanno traendo grandi vantaggi, molti altri invece subiscono la situazione e gli effetti negativi senza sapere cosa fare o compiendo errori che poi si dimostrano fatali. In generale, a fronte di alcuni paesi che stanno ancora vivendo un’ incredibilmente rapida ascesa economica, grazie alla loro competitività, ve ne sono altri che stanno subendo il proprio declino perché, si dice, hanno perso la loro competitività.
Delocalizzazione
La delocalizzazione produttiva è diventato, non da molto, anch’esso un concetto abbastanza chiaro e ben acquisito nell’occidente sviluppato, area in cui l’economia reale si sta riducendo complessivamente sempre di più. Ormai quasi ogni nostro cittadino si rende conto di quali disastri abbia già provocato e stia provocando ogni giorno di più, tanto che se ne parla ovunque e ognuno dice la sua.
Però, per quanto riguarda:
– le cause che la determinano,
– gli autori che la provocano o la realizzano o la gestiscono,
– le modalità attuative di questo/i processi,
– i colpevoli e i benemeriti di questi processi, a seconda da quale parte si sta,
– i beneficiari presunti e quelli veri,
– le conseguenze che comportano per le economie dei vari paesi,
sono aspetti del fenomeno su cui c’è molto da puntualizzare.
Da sempre il progresso umano è stato determinato dal mutuo trasferimento di conoscenze pratiche e scientifiche all’interno di comunità e/o fra popoli diversi. Più questi processi vengono facilitati più migliorano le condizioni economiche dei paesi interessati. Questo fenomeno, che è sempre andato avanti nell’interesse generale più o meno di tutti, è diventato sempre più veloce, in diretta relazione con la rapidità dei passaggi delle informazioni e con la mobilità delle persone.
Nei nostri tempi, dove le informazioni possono passare da una parte altra del globo in tempo reale e dove gli spostamenti di persone, da un continente all’altro, si compiono in giornata è molto più facile di un tempo andare a produrre dove le condizioni di competitività complessiva delle varie aree del nostro globo sono migliori.
Detto ciò, è opinione comune che le aziende, che producono beni più o meno durevoli, non aspettino altro che di trovare un posto migliore presso cui spostarsi, ovvero di delocalizzare, per guadagnare di più.
Questo non è normalmente vero. A nessuno imprenditore fa piacere sobbarcarsi i costi, le fatiche e i rischi che il delocalizzare comporta. Normalmente un’impresa è un insieme di persone più o meno ampio, che si è organizzato in un certo luogo per realizzare un processo produttivo dove molto importanti sono le esperienze tecniche, acquisite in anni e anni di dedizione al lavoro di imprenditori e maestranze, che sono il vero patrimonio di ogni azienda.
Nessun imprenditore medio piccolo, che di solito considera la propria azienda una sua creatura, butta a mare tutto ciò se non spinto, o meglio costretto, da condizioni esterne che nel tempo rendono la sua azienda non competitiva nel mercato globalizzato. Di solito quindi la delocalizzazione avviene forzatamente, come male minore, pena la propria estinzione e con essa di tutta la cultura tecnologica acquisita in tanti decenni di duro lavoro di tante persone.
Diverso il caso delle multinazionali della produzione, grandi e piccole. In queste non c’è la figura dell’imprenditore perno della gestione della società, che invece avviene attraverso organismi societari e manager, che hanno l’unico obiettivo di fare profitto, preferibilmente nel breve termine per raggiungere target collegati a bonus a proprio favore. Le visioni, gli obiettivi di lungo termine sono spesso trascurati, rispetto quelli a breve.
Inoltre questi manager non sono legati al territorio, alla storia dell’azienda e quindi non hanno remore mentali e affettive che li possano frenare o deviare dall’obiettivo del profitto.
Ancora diverso e ben più decisivo è il caso delle multinazionali della distribuzione che si sono accaparrate la gran parte delle quote del mercato retail in tante parti del mondo. Queste realizzano il massimo profitto sì con una buona organizzazione della distribuzione e dell’approvvigionamento dei prodotti ma, soprattutto, minimizzando i costi di acquisto e massimizzando quelli di vendita. Ovvero comprare dove costa poco produrre e vendere nelle aree con elevata disponibilità di denaro e propensione al consumo. Per fare ciò hanno ormai miriadi di agenti a loro collegati, che girano tutte le aree del globo, per cercare il luogo dove c’è chi potrebbe produrre o andare a produrre qualcosa a un costo più basso di quanto fino ma quel momento conseguito.
Se si può indicare qualcuno come massimo colpevole o fautore delle delocalizzazioni, si può certamente affermare che proprio queste multinazionali sono in netta pole position. In pratica sono i consapevoli alleati dei paesi low-cost, allocati nelle aree dei paesi consumatori. La finanza poi, nel processo di delocalizzazione, gioca il suo ruolo classico a supporto dello stesso che, nello stesso tempo, è sia fondamentale che parassitario.
Ma perché conviene o si deve delocalizzare?
Credo che la risposta ce l’abbiano un po’ tutti. Si delocalizza perché ci sono aree del mondo dove il costo combinato della mano d’opera, più quello del sistema paese in cui si delocalizza, è nettamente inferiore a quello in cui ha sede l’azienda delocalizzante. Talmente inferiore da indurre ugualmente un’impresa a intraprendere questa difficile iniziativa, nonostante i costi e i rischi spesso prima non ben valutati.
Per nettamente si intende che il costo del lavoro è, a parità di valuta di riferimento, da 3 a 10 volte più basso fra un paese e un altro. Tanto più elevata è questa differenza, tanto più lontano si può andare a delocalizzare e tanto più altri fattori diventano meno determinanti. Ciò non vuol dire che un paese è 3 o 10 volte più povero, ovvero che la gente che ci abita gode di consumi che sono 3 o 10 volte più bassi.
Infatti non è per nulla così.
Ad esempio:
-in Cina il salario netto di un lavoratore del settore industria è sì di circa 200-250 EUR al mese nelle zone sviluppate ma i prezzi dei beni e servizi comprati dalle famiglie sono nel loro complesso 1/5 di quelli in Italia
– In Polonia il salario netto di un operaio è di circa 400-500 EUR/mese ma il costo della vita è meno della metà, sempre rispetto all’Italia. Lo stesso si può dire di molti paesi dell’est europeo non avanzato o del resto del mondo.
Insomma le parità monetarie, ovvero i cambi fra le valute, nascondono o distorcono la percezione di questa realtà, fino ad arrivare all’assurdo del pensionato italiano che, percependo il minimo, vive nella miseria in Italia ma diventerebbe un benestante con gli stessi soldi se andasse ad abitare in Cina. Comunque, tornando alla delocalizzazione, qui bisogna considerare l’effetto dirompente e concomitante di 3 fenomeni che hanno facilitato enormemente questo processo:
1. la grande modernizzazione dei trasporti, avvenuta negli ultimi 50-60 anni;
2. la straordinaria evoluzione e diffusione delle tecnologie delle telecomunicazioni e la conseguente rapidissima circolazione delle informazioni, in grado ormai di raggiungere in tempo reale ogni angolo del nostro mondo.
3. la liberalizzazione dei commerci internazionali secondo le regole del WTO, avvenuta senza in pratica stabilire per i paesi aderenti analoghe regole e comportamenti da rispettare in materia di libera circolazione dei capitali
I primi 2 possono essere considerati un vantaggio per tutti o meglio per coloro che sono stati più bravi di altri a sfruttarli al meglio ma il terzo, che è il più importante, è andato a vantaggio solo dei paesi la cui classe politica ha capito bene l’enorme vantaggio che una nazione gode, per quanto riguarda lo sviluppo della propria economa reale, quando è nelle possibilità di gestire il valore del cambio della propria moneta.
Se la politica non è pìù di tanto condizionata nelle sue scelte dagli interessi delle oligarchie finanziarie , nazionali e internazionali ma invece riesce a far prevalere quelle dello sviluppo dell’economia reale ecco che, grazie alla elevata competitività del sistema paese, dovuto a un cambio debole, si sviluppano imprese nuove che si dedicano all’export, quelle esistenti si ingrandiscono fino diventare colossi globali, si crea un indotto locale che ne aumenta ancora la competitività, la nazione si arricchisce e si sviluppa a tassi più o meno elevati o incredibili a seconda di quanto debole è il cambio.
Il beneficio, dapprima riservato a pochi, nel tempo si estende ai molti che sono disposti a mettere il proprio impegno a promuovere lo sviluppo del proprio paese. In seguito il benessere economico raggiunge più o meno quasi tutta la popolazione. Processi che sono stati vissuti da molte nazioni e che hanno loro consentito di raggiungere un livello di benessere medio molto elevato. Non serva fare nomi ben noti ma l’Italia è stata uno dei paesi che ha saputo ben sfruttare la propria competitività fino 15 anni fa.
Nell’ultimo decennio abbiamo assistito a veri incredibili exploit fra i quali spicca quello della Cina che ha ben pensato di seguire la stessa strada percorsa dal suo vicino, nonché acerrimo nemico, Giappone. La Cina però ha fatto di meglio, mettendo in atto una politica di agevolazioni varie per gli investimenti stranieri, accompagnata dalla promessa che queste sarebbero state durature, perché la competitività del sistema paese sarebbe stata mantenuta ad ogni costo. Anche a costo di regalare ai ricchi occidentali una buona parte dei proventi dell’eccesso di export.
Come lo ha fatto?
Semplicemente con la politica della stabilità del cambio, concretizzatasi nell’aggancio del suo CNY al valore del dollaro a un cambio sostanzialmente fisso e molto basso/debole, del tutto scollegato al potere d’acquisto delle monete nei 2 paesi. La funzione dello USD quale valuta internazionale per gli scambi commerciali ha in pratica tenuto il valore del Renmimbi cinese sottovalutato rispetto a tutte le altre valute, rendendo d’altra parte ipercompetitivo il sistema manifatturiero cinese nel mercato globale.
Tutto ciò, unito alla laboriosità e capacità indubbie dei cinesi a tutti i livelli, a cominciare dai
governanti,hanno determinato l’incredibile sviluppo economico di questo paese degli ultimi 20 anni.
Tutto bene?
Per la Cina per ora sì ma non per tutti.
L’occidente, che si è visto scippare il suo know how senza che nessuno facesse alcunché, sta vedendo progressivamente sparire il proprio sistema manifatturiero nella quasi totale indifferenza e nella colpevole rassegnazione, sta assistendo al suo declino e impoverimento sempre più rapido e inesorabile come un fatto ineluttabile.
L’occidente stenta ancora a capire cosa gli sta succedendo e perché. Per il momento assistiamo all’avvio di dure dispute e conflitti economici fra gli stati occidentali, per scaricare sugli altri gli effetti di questa crisi che ingloberà prima o poi tutti, chi più chi meno.
Impoverimento
Queste situazioni, che appaiono assurde e incomprensibili ai più, sono i motivi che spingono per profitto o per la sopravvivenza di un’azienda a delocalizzare. Ma non solo perché ormai, più che di imprese che si spostano altrove, una volta che il know how è stato acquisito da un paese, è il lavoro stesso, la produzione nel suo complesso che si trasferisce da un paese all’altro, con l’apertura di nuove manifatture locali che si creano sulla spinta delle richieste dei mercati ricchi. Gli occidentali in questo sono stati bravissimi, hanno aperto le loro frontiere a ogni sorta di beni e cianfrusaglie prodotte dai paesi a basso costo del lavoro, Cina in primis, non preoccupandosi che questo avrebbe portato allo smantellamento dei propri sistemi manifatturieri e al conseguente impoverimento dei vari paesi.
Gli USA sono proprio mal messi. L’industria manifatturiera in questo paese è già sparita da tempo e con il tempo sparirà anche la capacità di creare nuovi prodotti che resterà appannaggio invece dei paesi che hanno mantenuto e sviluppato la propria economia reale. Altrettanto sta facendo l’Europa finora praticamente noncurante delle sorti delle proprie industrie. Già, oggi bisogna salvare il sistema finanziario e tutti coloro che ci vivono sopra, magari contribuendo a rendere irreversibile il declino del sistema produttivo occidentale che ogni giorno che passa in certi paesi, fra cui l’Italia, vede chiudere aziende ma non perché il mercato non c’è più ma perché altri competitor, operanti in paesi con costi più bassi, ne sottraggono quote a proprio favore. Questo atteggiamento potrebbe essere definito criminale perché fa danni enormi ed è molto più criminale dell’evasione fiscale e contributiva, la cui lotta contro è un sacrosanto dovere dello stato .
Fallimento
Insomma la delocalizzazione produttiva e la sparizione del lavoro vero portano una nazione a dipendere sempre di più dagli approvvigionamenti dall’estero. Il che vuol dire che la propria bilancia commerciale peggiora sempre di più e che per poter continuare a consumare deve indebitarsi sempre di più.
Fino a quando?
Fino a che ci si accorge che avere credito è sempre più difficile, sempre più costoso, sempre più condizionato a offrire garanzie diverse dalla credibilità ormai perduta. Insomma fino alla fine del sogno di abitare nel paese di bengodi.
E allora che si fa?
Via alle manovre lacrime e sangue e a provvedimenti vari, rivolti al salvataggio del sistema finanziario che determinano un ulteriore impoverimento del sistema paese,fino all’impossibilità di evitarne il fallimento. Per fare un po’ di confusione, che serve a mascherare i problemi veri, si propongono le liberalizzazioni, che di per sé sono anche un fatto positivo ma che alla fine sono solo un modo diverso di spartire una torta, che mantiene sempre la stessa dimensione.
Sembra proprio che in Italia ma non solo dovremo arrivare a tanto, prima di assumere consapevolezza del disastro che è stato combinato in questi ultimi 10-15 anni di asservimento alle nuove teorie sullo sviluppo economico globale, alle moderne teorie monetarie, ai voleri e interessi delle oligarchie finanziarie e dei loro servi colpevoli opportunisti.
Conclusione
Credo che proprio la mancanza di consapevolezza e comprensione del disastro in corso sia l’handicap più forte che ci farà precipitare nel baratro. Peccato, perché di persone che in Italia credono ancora che “E’ la produzione, non il consumo, che stimola l’economia” ce ne sono. Sono queste che possono salvare il nostro paese, non certo quelle che affermano con sicumera che : (Riporto una parte di un’intervista su un periodico di un illustre esperto economista)
Se l’Italia non fosse entrata nell’euro la situazione sarebbe certo peggiore dell’attuale, perché la lira avrebbe subito pesanti svalutazioni, l’inflazione non sarebbe stata piegata verso il basso, il debito pubblico e il deficit sarebbero molto peggiorati per l’assenza di vincoli esterni credibili. Inoltre (questa è proprio grossa), la nostra manifattura non si sarebbe ammodernata come ha fatto reagendo molto bene alla mancanza di svalutazioni competitive e accumulando dei surplus notevoli purtroppo controbilanciati dal deficit energetico e da quello in alcuni settori come la chimica di base, l’informatica e i mezzi di trasporto. In fondo, anche nella crisi, l’Italia ha mostrato molti punti di resistenza sia bancaria che manifatturiera.
Queste voci che trovano tanto spazio rappresentano il pensiero dominante, mentre quelle che saprebbero dire le cose come stanno non trovano udienza nei media che contano. Anzi proprio si evita che parlino, guai a dire che l’Euro con le sue implicazioni e regole ci sta portando al collasso. Se qualcuno si azzarda viene subito zittito ed estromesso da ogni futuro dibattito e quindi? Si salvi chi può e auguri che un cigno bianco ci aiuti.
Gaolin
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…quanto hai ragione !!!!! anzi, voglio essere provocatorio: anche all’interno di questo blog ci sono persone che non codividono che “è la produzione, non i consumi che stimolano (e sostengono) l’economia”.
Il 16/11/2008 Dream mi lasciò postare in questo blog un articolo (Globalizzazione e delocalizzione) che ricalcava i tuoi concetti; a tale post hanno fatto seguito altri sugli effetti dell’euro, sulla disgraziata decisione di far entrare la Cina nel WTO, etc.
E’ superfleo sottolineare che condividiamo una visione comune, purtroppo con probabili tragici sviluppi.
Per rincarare la dose allego un post sullo “schiavismo” con cui la grande Apple opera in Cina, che non si discosta da analoghi comportamenti della Nike o della Nestlè, etc.
Quando l’Europa si deciderà a mettere forti barriere a simili patiche, sarà sempre troppo tardi !!!!
….purtroppo è in inglese…
Sottoscriverei sillaba per sillaba. Quello dell’occidente (Italia compresa) non è piú il “Tramonto” di cui parlava Spengler bensí un vero e proprio suicidio (voluto/indotto da chi? e per che cosa?.
Aggiungerei volentieri, di mio, una considerazione politicamente “non-corretta”: tutto questo disastro non è solo il frutto di una deformazione culturale del “capitalismo” occidentale, ma anche di una visione utopistica del mondo (nata nel ’45 o nel ’68?). Credo che l’idea del “benessere globale” come obiettivo e frutto della libera circolazione di tutto (merci, capitali, persone) e di diritti universali per tutti (senza tener conto dei costi sociali, economici e finanziari) sia stato uno dei motori che hanno portato l’occidente in questa situazione di declino rapido e (probabilmente) irreversibile: a meno di un miracolo – cioè di un radicale recupero di volontà di sopravvivere, di difendersi. Questo richiederebbe però, come presupposto essenziale, (1) la presa di coscienza (politica) delle cause generatrici del disastro; (2) la ferrea determinazione ad eliminarle (a qualunque costo, senza tanti ‘distinguo’ democratici o liberal-liberistici) e (3) la rigenerazione delle energie – popolari, nazionali, culturali, nonché economico-finanziarie – richieste da questa battaglia.
Non c’è di che essere ottimisti.
concordo, Gaolin ha ragione: la metafora è quella di una partita di calcio in cui una delle due squadre può giocare sia con le mani che coi piedi e l’altra no. La compezione si può fare se le regole sono uguali per tutti, altrimenti il rischio è quello che il vantaggio della globalizzazione vada a vantaggio di pochi (multinazionali, imprenditori globali e in modo limitato viste le politiche di cambio ai lavoratori dei paesi emergenti) e a svantaggio di molti (tutta la classe media occidentale che dovrà accettare benessere minore per restare competitiva.
Ci sono anche squadre (la Germania) che tecnicamente sono così forti da poter vincere anche contro squadre che non debbono rispettare regole… ma prima o poi anche quest’ultimi affineranno la loro tecnica e allora vinceranno le partite…
L’europa non capisce questo .. già il fatto che il tasso di cambio sia così alto la dice lunga..
Ho un solo dubbio: i paesi emergenti giocando sporco sul tasso di cambio, in teoria dovrebbero importare inflazione, quell’inflazione che gli stati uniti scaricano sulla Cina cercando di svalutare il proprio debito nei confronti del creditore. La provocazione è: siamo sicuri dei numeri che dicono sulla Cina? non si nasconde qualcosa?
Post scriptum:
l’unica cosa che mi offre un minimo di consolazione (si fa per dire) è che coloro che ci hanno portato in questa situazione (cioè i “liberal” radicali americani – da Wilson a Roosevelt, seguiti da Kennedy, Clinton e – dulcis in fundo – Obama), siano destinati a seguire – forse con uno scarto di qualche decennio – la nostra stessa sorte. Comunque sia: resta una magra consolazione, considerando ciò che è stato distrutto dalla loro utopia, cioè la nostra civiltà.
Come al solito Gaolin preciso, efficace e sintetico.
Niente da eccepire sull’analisi, mi piacerebbe anche se almeno qui sui commenti ci prospettassi secondo te quali potrebbero essere se non le “soluzioni” almeno la direzione che dovremmo intraprendere a livello macroeconomico e quali sarebbero le azioni piu’ efficaci per evitare la catastrofe.
Se ho ben capito saresti favorevole ad una dissoluzione dell’euro almeno per riuscire a trovare un’equilibrio valutario per le esportazioni italiane, o perlomeno per il poco che ne rimane.
Quello che mi chiedo è che se effettivamente un rapporto di cambio cosi’ sfavorevole ammazza la nostra economia, anche ipotizzando una ns. uscita dall’euro, il “rovescio della medaglia” comporterebbe a parte gli ovvi casini sul debito privato e pubblico, un notevole aumento del costo delle materie prime, dalle quali siamo totalmente dipendenti.
Francamente piu’ che una dissoluzione dell’euro sarei piu’ favorevole (vista la guerra finanziaria in corso) ad una “barriera” dal dumping cinese che prescindendo dal “dazio in sè”, prevedesse tassazioni crescenti sui prodotti importati classificati per quantità di emissioni di CO2, magari prevedendo una etichettatura obbligatoria con la quale si certifichino le emissioni ambientali, cosi’ da privilegiare i prodotti a basso impatto ambientale e magari permettere ad aziende nostrane di lavorare come enti certificatori per il processo produttivo e la certificazione delle emissioni/prodotto.
Sarebbe da fare anche magari una certificazione sulle condizioni di lavoro, ma effettivamente la cosa è molto piu’ complessa (considerando le catene di subfornitura) e difficilmente attuabile.
Comprendo che qualcuno lo potrebbe definire come una sorta di protezionismo, ma francamente sono abbastanza stanco di sta specie di “tabù” che circonda sia questa parola che le modalità di “mercato” ad essa correlate, visto e considerato che praticamente siamo solo noi in EU che ci atteniamo a sta specie di “mostro intoccabile” definito (molto ipoteticamente) “libero scambio delle merci”.
Un cigno bianco?Un incremento strutturale del del prezzo petrolio con prezzi stabili sopra i 150 $ in modo da rendere sconveniente la maggior parte di queste pratiche.
Bhè, ci sarebbero altri problemi…..mica si può avere tutto!!
Concordo che il cigno bianco potrebbe essere proprio un’impennata del prezzo del petrolio, in maniera da rendere poco vantaggiosa l’opportunità di produrre merci dall’altra parte del globo.
Ritengo che infatti sia uno degli altri motivi/cause della crisi geopolitica attuale in Iran e Siria… e della futura presa di posizione.
Gioverebbe tra l’altro al programma di Obama… di “reindustrializzare” l’USA anche se ci vorranno decenni… consumi permettendo, visto che comunque i prodotti costerebbero di più di quelli importati attualmente… insomma il solito cane che si morde la coda.
Gaolin permettimi solo di aggiungere, per esperienza personale, che comunque la scelta di un’azienda manifatturiera di delocalizzare la propria produzione in un altro Paese, molto lontano, è fondata su una notevole forza di volontà, assunzione di rischio e perfetta conoscenza del processo produttivo (pena insuccesso immediato)
Cerco di spiegare bene il concetto. Produrre a 10.000 Km di distanza non consente di controllare ed intervenire sulla produzione… a meno che hai una (o più) persone di estrema fiducia in loco che effettui tale controllo per conto tuo (per questo molti alla fine tentano di aprire gli stabilimenti produttivi in loco).
Poi il costo del prodotto finito… è particolarmente inficiato dal costo del trasporto e quindi di tutte le variabili che cambiano il prezzo dell’energia e quelle geopolitiche. Senza contare la tempistica, altro aspetto non da sottovalutare, tipo la vendita di prodotti soggetti a stagionalità come il settore della moda (vestiti, calzature, pelletteria, ecc.)
Inoltre aggiungerei ancora un aspetto che forse spiega anche il perché l’Italia… non sia competitivo a livello di delocalizzazione. I lotti di produzione: le aziende cinesi o indiane difficilmente oramai accettano lotti di piccoli pezzi (dell’ordine di qualche centinaio per intenderci) ai quali invece le nostre microimprese erano abituate a realizzare, specializzandosi anche nel riuscire a trarre un profitto da tale ottimizzazione del processo produttivo (ovvero spesso una semplice conduzione familiare… ).
Quindi vi lascio trarre le conclusioni… già evidenti dal seguente link:
http://www.gazzettaufficiale.it/guridb/dispatcher?service=1&datagu=2012-01-25&task=dettaglio&numgu=20&redaz=12A00590&tmstp=1327598333661
Sì, si tratta della Gazzetta ufficiale… che pochi leggono.
Preciso che tali provvedimenti (riportati nelle 73 pagine!) riguardano solo una settimana!
Motivo in più giustamente per discutere di queste cose… anche se, come giustamente dice Gaolin, nessuno dei mass-media le vuole affrontare seriamente (la politica ancora meno… visto che perderebbe voti… d’altronde sareste contenti di sentirvi dire che la situazione è questa?)
paolo41:
…quanto hai ragione !!!!! anzi, voglio essere provocatorio: anche all’interno di questo blog ci sono persone che non codividono che “è la produzione, non i consumi che stimolano (e sostengono) l’economia”.
se ben ricordo, è l’esatto contrario dell’approccio keynesiano all’economia
….credo che se Keynes fosse vissuto nel mondo di oggi, avrebbe modificato le sue teorie e siccome era un dritto, probabilmente avrebbe dato qualche consiglio buono ai governanti occidentali che ne avrebbero assoluto bisogno.
Scherzi a parte, tirare in ballo Keynes mi sembra anacronistico, perchè la configurazione economica mondiale è profondamente cambiata così come le interrelazioni fra continenti e singole economie. Come ha spiegato bene Gaolin, le forze in gioco sono cambiate: gli stati occidentali non hanno capito che sempre più stavano perdendo il controllo diretto dell’economia e sono gradualmente passati…. “al servizio delle multinazionali”, mentre i paesi asiatici e quelli ricchi di materie prime stanno condizionando l’economia mondiale.
Oggi vince chi produce e chi è capace di avere una bilancia commerciale positiva, anche se ricorre a metodi che la nostra cultura e la nostra storia considerano “illegali”.
Occorrerebbe riportarli a un certo rispetto delle regole, probabilmente usando la forza del tanto vituperato protezionismo…non credo, infatti, che siano molto propensi a seguire le teorie degli illustri economisti.
Non so se lampo sappia che la romania importa ogni giorno circa 140000 quintali di pane prodotto in romania nelle regioni del nord italia a un prezzo di 1 euro a kg. Da noi la farina costa circa 0,70 al kg.Nella mia citta (Trieste) non solo il pane ma anche la carne la troviamo in centro a prezzi sloveni. la benzina la carne le verdure i prodotti semilavorati delle carni costano molto meno nella Slovenia che in Italia ed essendo una regione di confine non paga le tasse come da noi mentre i nostri commrcianti chiudono. QUESTA è L EUROPA conflittuale che ci propinano ma fino a che non ci sara l europa unita politica non capiremmo mai dove stiamo andando o per meglio dire dove ci stanno portando!
Purtroppo lo so… anche perché vivo in una regione confinante con la Slovenia! Non per niente con l’aumento delle accise sui prodotti petroliferi… ci sono di nuovo le code in Slovenia per fare il pieno… e i benzinai italiani che si lamentano che non vendono più (con tanto di benzina agevolata).
Il mio discorso riguardava prodotti di una certa complessità: nel momento in cui delocalizzi e vuoi mantenere uno standard produttivo simile al prodotto che producevi in loco… automaticamente sei costretto a trasferire quasi tutta la conoscenza del processo produttivo nel paese dove hai delocalizzato!
A meno che delocalizzi la produzione di parti del prodotto in paesi diversi… che però comporta degli standard qualitativi diversi che in fase di assemblaggio del prodotto finito possono comportare notevoli difficoltà (tolleranze non rispettate, qualità elettronica non all’altezza, ecc.), inficiando notevolmente il margine di guadagno.
Tutt’altro discorso è quello di una nota azienda di scarpe che delocalizzando in un Paese non molto lontano, visto che “spariva” una non esigua fetta della produzione… ha deciso di produrre la scarpa destra in un Paese e la scarpa sinistra dello stesso modello in un altro (non chiedetemi il nome… visto che preferisco non farlo vista la sua importanza).
Ottimo gaolin.
Servono protezionismo e indipendenza dal WTO.
E qui si capisce perchè l’Italia negli ultimi decenni ha avuto bassa crescita (al di là del mancato supporto pubblico): la prevalenza di aziende piccole e l’assenza di multinazionali nell’epoca della globalizzazione.
Qui il parere di un imprenditore che ha deciso di non localizzare:
http://www.lettera43.it/economia/aziende/36159/perdo-fatturato-ma-resto.htm
Essendo rientrato ieri dall’estero rispondo con ritardo. I lettori del blog mi scuseranno certamente.
L’idea che la Cina sia ancora solo un paese assemblatore è molto diffusa ma non corrisponde al vero. O meglio vi sono prodotti in cui la Cina effettivamente svolge la funzione di assemblatore (vedi I-phone e tutta la miriade di prodotti che vengono progettati in occidente ma fabbricati in Cina) ma ormai ve ne sono molti di più che sono del tutto Made in China.
Ad ogni modo la Cina si sta preparando e sta lavorando per non essere più un paese che copia ma per diventare un sistema produttivo che innova e crea seguendo criteri di qualità ai massimi livelli. Operazione non facile, visto il gap culturale che ancora c’è. Però i cinesi, dai governanti in giù si stanno impegnando fortemente in questa impresa e non mi meraviglierei se arrivassero a compiere l’impresa ben prima di quando oggi si potrebbe immaginare. Butto lì un pronostico: entro 10 anni.
paolo41,
Io non sarei così severo nei giudizi sul sistema produttivo cinese, fatto di manifatture che impiegano da decine di migliaia fino a qualche decina di dipendenti.
A parte certe situazioni da “vecchia Cina”, normalmente oggi le aziende cinesi non sono certo come certi servizi giornalistici vogliono dipingere. Non capisco perché ci ostiniamo in occidente a voler vedere la Cina un paese dove in fabbrica ci sono condizioni di quasi schiavitù. Certo i lavoratori non hanno le tutele e le garanzie a cui si è abituati in occidente. In Cina si lavora duramente ma nulla di più che da noi nelle aziende che devono competere in regime di libera concorrenza.
La grande differenza è che ai cinesi il lavoro straordinario è spesso molto gradito e, quando non lo è, viene più o meno imposto ma senza incontrare grandi avversioni. In Cina consegnare nei tempi pattuiti o terminare un’opera nei tempi previsti è la normalità, sia che si tratti di ordinativi industriali che di opere pubbliche.
schwefelwolf@finanza,
Visto chi ci comanda e quali ideologie e teorie finanziarie hanno in testa c’è poco da essere ottimisti, come ben dici
lacan2@finanza,
In effetti anche in Cina si manipola il dato sull’inflazione, come dalle nostra parti. Né più né meno. Anche in Cina il paniere per il calcolo fa sì che molte voci, i generi di prima necessità e il cibo, incidono poco ma salgono di prezzo ben più della media. Quelli che vengono penalizzati anche in Cina sono le classi meno abbienti
lukeof@finanza,
Dare ricette per uscire da questa situazione è un’impresa che non vale la pena di iniziare, fino a che non si ammette che:
Nell’area EURO, ovvero nella moneta unica, ci stanno economie troppo diverse quanto a capacità tecnica e competitiva. Non parliamo poi delle diverse mentalità e caratteristiche dei vari popoli. Non siamo un insieme di culture ed economie omogenee e, avere pensato di unificare i popoli europei con una moneta unica, è stata una follia. che però a pochi ha dato grandi vantaggi. Se lo si volesse, tornare indietro non sarebbe impossibile ma questa strada sarà osteggiata in tutti i modi da coloro che ora ci comandano, che poi sostanzialmente sono gli stessi che la moneta unica l’hanno voluta.
La competitività cinese è frutto non solo della laboriosità di questo popolo ma soprattutto dal fatto che il tasso di cambio fra EUR e CNY è del tutto scollegato al potere d’acquisto delle 2 monete nelle rispettive aree economiche. Finché si lascia che la Cina, ma non solo lei, attui il suo dumping valutario indisturbata, si proseguirà nella delocalizzazione, nell’impoverimento fino al fallimento di tutto il sistema economico e finanziario occidentale.
Applicare politiche di protezionismo è ormai quasi impossibile e molto probabilmente controproducente, solo che il libero scambio delle merci dovrebbe avvenire nelle aree dove è anche libero il movimento dei capitali. Ciò allineerebbe anche le valute a valori corrispondenti alla forza delle rispettive economie.
lampo,
Le tue osservazioni sono corrette.
Implicitamente affermi anche che ormai delocalizzare un’azienda italiana in Cina non è più una strada perseguibile. Ormai in Cina sono capaci di fare quasi tutto ciò che si fa in Italia. Infatti ormai in Cina si viene a comprare a miglior prezzo ciò che in Italia si fa o si faceva, magari con una qualità inferiore. Le chiusure di aziende che copiosamente avvengono di questi tempi nel nostro paese sono frutto di questo processo.
Ancora 2 anni di appartenenza all’Euro e buona parte del sistema manifatturiero italiano in queste condizioni sparirà.
Implicitamente affermi anche che ormai delocalizzare un’azienda italiana in Cina non è più una strada perseguibile
Sì, in parte. Vedo che hai notato che nel mio commento ti sei accordo che nella spiegazione non ho approfondito (volutamente) l’aspetto della “perfetta conoscenza del processo produttivo”.
Come ben sai… era “facile” delocalizzare in cina (ma anche in altri Paesi) proprio quei prodotti di cui si aveva tale perfetta conoscenza…
Il perché, oltre ai motivi economici, era, la possibilità per l’imprenditore locale (del Paese in cui si delocalizza), grazie all’occasione di produrre tale bene, di pian piano assumere la conoscenza del suoprocesso produttivo (specie di alcune fasi più complicate… o più precise dal punto di vista qualitativo)… oltre a conoscere i mercati ed i gusti del consumatore finale (specie a livello qualitativo… visto che inizialmente era quello l’aspetto più difficile da raggiungere), dove poi, a fine partnership, esportare la produzione di tale bene.
Purtroppo oggi non ci sono rimaste ancora molte aziende a cui convenga, in questi termini, delocalizzare.
Succederebbe troppo rapidamente che venga copiato e rivenduto da qualche altra azienda del Paese.
Debbo dire che “la colpa” di questa situazione è soprattutto nostra… visto che siamo (o eravamo?) tra i più grandi esportatori di macchinari ed impianti produttivi…
Secondo me oramai per sopravvivere a livello economico bisogna puntare sui prodotti dalla catena corta, di cui c’è la necessità a livello locale e di cui la richiesta di consumo è indirizzata a tale particolare prodotto per la sua peculiarità locale (ad esempio prodotti eno-gastronomici).
Ciò non toglie… che poi si possa esportare tale “gusto” anche su una catena più lunga (nel lontano ’95 i cinesi adoravano poco il vino e tanto meno l’olio extravergine di oliva). Oggi i tempi, e soprattutto i gusti, sono estremamente cambiati, ed il consumo di questi due prodotti è cresciuto esponenzialmente.
Per il resto sono dell’idea che il vecchio capitalismo dei paesi sviluppati (occidentali) che era fondato sul lavoro e quindi sulla manodopera) sta tramontando già da un pezzo (anche se non bisogna farlo capire) e ha già preso piede il capitalismo finanziario… basato sul casinò degli investimenti (e della fuffa finanziaria). Quindi chi ha capitali… può ancora permettersi di giocarsi il proprio tenore di vita.
Gli altri… sappiamo già pian piano che sono destinati alla deflazione del loro stile di benessere, ovviamente come linea tendenziale media.
Mi rendo conto che è un pensiero azzardato… 🙄
I cinesi sono assemblatori, chiamarli “produttori” è un pò fortino al momento. Forse un giorno diventeranno produttori al pari di Taiwan, Corea, Singapore e altre tigri ma al momento sono solo un sacco di gente che viene svegliata nel cuore della notte perchè, per esempio, un certo Steve Job alza il telefono e dice di cambiare immediatamente lo schermo al nuovo Iphone 4 perchè deve essere di vetro e non di plastica lo fa 9 giorni prima del lancio.
http://www.key4biz.it/News/2012/01/23/Tecnologie/Apple_iPhone_iPad_Cina_Steve_Jobs_Barack_Obama_208015.html
Lodevoli nella loro “dedizione” al lavoro e la loro professionalità, nella competitività..ma il gioco, come tutte le cose, ad un certo punto si rompe anche.
http://www.businessweek.com/magazine/using-propaganda-to-stop-chinas-strikes-12152011.html
http://www.businessweek.com/news/2011-11-24/china-workers-strike-at-companies-that-make-ibm-parts-lingerie.html
La “fortuna” della Cina è avere un regime dittatoriale che controlla gli impulsi e gli impeti propri della razza umana. Ma tanto stanno già rimpiazzando i lavoratori in carne ed ossa con i robot..quello lo abbiamo già fatto pure noi..
http://chinachallenges.blogs.com/my_weblog/2011/11/foxconn-building-robots-to-solve-china-labour-crisis.html
Ammiro la tua passione per la Cina, anche io sono affascinato da certe dinamiche ma altre mi spaventano molto, mi fanno riflettere che forse forse sotto il fazzoletto bianco non c’è una pepita d’oro ma una grande c….a