EURO: vera causa del crollo produttività italiana?

Scritto il alle 16:07 da Danilo DT

Si all’Euro. Fuggiamo dall’Euro. Via dall’Euro…

Il confronto tra Euristi e anti-Euristi (giustamente un lettore mi ha corretto, questa è la dizione esatta e non Euro-peisti) è sicuramente MOLTO stimolante e molto complesso.
La mia posizione credo sia nota ai lettori del blog.
E’ veramente impossibile poter dire in quale situazione sarebbe l’Italia SE non fosse entrata a far parte del clan dell’Euro. E non voglio nemmeno perdermi in sterili e lunghissimi discorsi su quello che oggi potremmo essere. Forse saremmo falliti o forse no, forse saremmo peggio della Grecia o forse no. Non potremo saperlo MAI. MAI!

Quindi inutile fare dietrologie. Il passato è passato, ora siamo nell’Euro e dobbiamo capire COME uscire fuori da questa difficile situazione in cui ci siamo cacciati. I disequilibri in Europa sono certamente un problema, ma è anche vero che noi, Italia, abbiamo fatto di TUTTO per farci la fossa e seppellirci.
Abbiamo sulle spalle una carogna che è il debito, certo, ma non solo. Che dire delle lobby e della politica? Ma vi rimando al post che potete leggere CLICCANDO QUI che vi parla di questo e altro.

Una delle grandi diatribe è comunque sempre quella del cambio, ovvero il passaggio da una valuta fluttuante ad una con regime fisso, e soprattutto quello che ha comportato tutto questo per la  produttività del nostro paese. Proprio quella produttività che ora sta colando a picco.

L’amica Anna Maya , mi ha segnalato un eccellente lavoro di Tommaso Monacelli,  che per chi non lo conoscesse, un docente della Bocconi e PhD in Economics presso la New York University.
Questo Professore ha scritto mesi fa un post illuminante proprio su questo argomento, un post diviso in due parti che io vi ripropongo in toto.
Il lavoro originale lo troverete presso i seguenti link.

Euro, domanda, e produttività: un viaggio nel mito. Parte 1
Euro, domanda, e produttività: un viaggio nel mito. Parte 2

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Anche le pietre sanno oramai che la stagnazione nella produttività, iniziata nella seconda metà degli anni ’90, è il problema economico centrale del Paese. Uno dei miti che circolano in Italia è che la causa, stricto sensu, sia l’euro. Inteso come passaggio da un sistema di cambi flessibili a uno di cambi fissi. Discutiamo qui perchè questa tesi abbia ancora ben poco di scientifico. Senza nulla togliere al fatto che l’euro, nella sua architettura complessiva, rimanga un sistema altamente imperfetto.

Premessa

Oramai lo sanno anche le pietre:  la graduale e persistente caduta (del tasso di crescita) della produttività aggregata dei fattori (o TFP), cominciata nei primi anni ’90, è il malessere macroeconomico principale dell’Italia. La produttività totale dei fattori è quella parte della crescita aggregata dell’economia che non può essere spiegata con la mera crescita nell’impiego di capitale e lavoro. Perciò è una misura dell’efficienza complessiva con cui i fattori di produzione vengono impiegati nel sistema economico, oltre che della loro qualita’. Nel lungo periodo la crescita di TFP spiega gran parte delle differenze di reddito pro capite tra paesi. Uno dei miti che circolano (pericolosamente) nel Paese è che, in Italia, il rallentamento della produttività sia dovuto, tout court, all’introduzione dell’euro. Questa tesi circola sulla stampa, nella blogosfera e nella pubblicistica nostrana.

Chiariamo subito un punto decisivo (spesso lasciato nel vago per comodità).  Per “introduzione dell’euro” intendiamo la transizione a un sistema di cambi fissi per una piccola economia aperta (quale è l’Italia). Quindi, non intendiamo tutto l’apparato di politiche economiche complementari (si noti, non tutte strettamente necessarie) che la creazione dell’Unione Monetaria ha portato con sè (rapporto deficit PIL, debito-PIL, etc..). Questo chiarimento è cruciale perchè coloro che propongono la tesi “euro implica caduta produttività” sono anche coloro che richiedono a gran voce una uscita dall’euro, proprio per tornare a godere del margine della flessibilità del cambio. È per questo, ma solo per sintesi espositiva, che talvolta defineremo la tesi “euro-causa-caduta-produttività” la tesi di “euro-exit”.

La domanda che analizzeremo va quindi riformulata così:

L’adozione di un sistema di cambi (irrevocabilmente) fissi ha causato una caduta del tasso di crescita della produttività? Che relazione può esistere tra flessibilità del cambio nominale e crescita della produttività? 

La domanda è scientificamente molto interessante (studenti di PhD, prendere nota). Per cercare di rispondere distinguerò tra (i) come la tesi viene (seppur implicitamente) presentata in alcuni ambienti accademici italiani (e/o nella blogosfera, con un certo impatto nel policy discourse [1]), e (ii) come, modestamente, studierei io la questione che la domanda sottende.

Uno sguardo all’andamento di TFP nell’area euro

La tavole qui sotto riportano alcuni dati su (i) crescita della produttività totale dei fattori (TFP) nei paesi euro durante i primi anni della moneta unica, e prima della crisi del 2007-08; (ii) crescita della produttività del fattore lavoro (LP) in Italia. La distinzione tra TFP e LP è importante, torneremo a breve su questo punto.[2]

Tavola 1. Tasso di crescita della produttività totale dei fattori (TFP)(fonte OECD, Productivity Database. Frequenza: annuale)
1985-90 1990-95 1995-00 2000-05 2005-11
Belgium 1.6 1.5 1.4 0.4 ..
Canada -0.5 0.7 1.3 0.5 -0.1
Finland 0.8 1.3 -0.2 -0.2 0.1
France 1.7 1.1 1.3 0.7 0.1
Germany .. .. 1.1 0.7 0.8
Ireland 3.3 3.5 4.3 1.9 0.7
Italy 1.4 1.2 0.3 -0.4 -0.6
Japan 3.1 0.7 0.7 1 0.6
Netherlands 1.1 0.5 1.2 0.9 ..
Portugal .. .. 2.5 0.1 ..
Spain 0.8 1.3 -0.2 -0.2 0.1
United Kingdom 1.3 0.8 0.5 -0.5 1.5
United States 0.7 0.7 1.5 1.7 0.8
 Tavola 2. Tasso di crescita della produttività del lavoro (LP)(fonte OECD Productivity Database. Frequenza: annuale, compounded)
1985-90 1990-95 1995-00 2001-07 2007-11
Austria 0.4 0.4 1.9 2 0.7
Belgium 2.4 2.4 2.1 1.5 -0.6
Canada 0.3 1.6 2 1 0.5
Finland 3.5 3.1 2.8 2.5 -0.5
France 2.2 2 2 1.5 0.3
Germany 2.5 2.5 1.8 1.6 0.2
Greece 1 0.4 2.9 3.1 -1.4
Ireland 3.6 3.8 6.1 2.5 2.8
Italy 2.2 2.1 0.9 0.2 -0.1
Japan 4.5 2.1 2 1.6 1.8
Netherlands 1.6 0.9 1.8 1.8 0.1
Portugal 1.7 3.8 3.5 1.4 1.1
Spain 1.4 2.6 0.2 0.7 1.6
United Kingdom 1.4 2.9 2.5 2.4 0.2
United States 1.2 1.2 2.4 2 1.5
Euro Area 1.2 1.2 1.2 1.3 ..

È ben evidente (e ben nota) la riduzione del tasso di crescita sia di LP che di TFP in Italia. Ciò che colpisce, però, sono due dati. Primo, confrontando il periodo 1995-2000 (lustro pre-euro) con quello 2000-2005 (lustro post-euro), il rallentamento della produttività totale è trend diffuso tra le economie industrializzate, anche se non generalizzato. Secondo, confrontando gli stessi due periodi, la caduta della produttività  (sia totale che del lavoro) riguarda quasi tutti i paesi dell’euro, sia quelli della cosiddetta periferia (esclusa la Grecia), che la Germania.

Da cui due osservazioni iniziali. Primo, se il problema è l’adozione dell’euro stricto sensu, perchè il rallentamento di TFP e LP dalla metà degi anni ’90 in poi colpisce anche diversi paesi al di fuori dell’eurozona? Non sorge il dubbio che si tratti di un declino generalizzato e strutturale nelle economie industrializzate? Secondo, perche’ il rallentamento delle misure di produttivita’ italiane avviene tra i cinque ed i dieci anni prima delle altre?

Come vedremo dettagliatamente sotto, la tesi centrale di “euro-exit” è che sia stato l’eccessivo iniziale apprezzamento reale del cambio (dovuto a un errato tasso di conversione lira-euro) a generare (attraverso i canali che discuteremo) la caduta di produttività. Se questo vale per noi suppongo valga anche per quegli altri paesi dell’area euro la cui produttivita’ ha rallentato nel periodo post-2000 (Belgio, Finlandia, Francia, Germania, Irlanda, Olanda, Portogallo). Qui ci scontriamo subito con un quasi-teorema di impossibilità.

Il tasso di cambio reale è un prezzo relativo. È quindi logicamente impossibile che tutti i paesi che hanno adottato l’euro abbiano simultaneamente fissato il tasso di cambio reale a un livello iniziale “troppo apprezzato”. In un mondo con 2 paesi, A e B, è ovvio che il cambio sovrapprezzato del paese A corrisponde a quello eccessivamente deprezzato del paese B. Se veramente la causa originale è il misallineamento del cambio reale, questa non può certo spiegare il fatto che la produttività sia rallentata in quasi tutti i paesi dell’unione monetaria. Non sembra possibile che tutti i paesi, con l’ingresso nell’euro, abbiano simultaneamente sovrapprezzato il loro tasso di cambio. Basterebbe questa evidenza per generare un iniziale scetticismo sul presunto effetto diretto che muove da adozione dell’euro a produttività. Il rallentamento del tasso di crescita di TFP e LP e è in realtà un trend strutturale di lungo periodo che riguarda tutti i paesi industrializzati (e l’area dell’ euro in particolare), indipendentemente dal regime di cambio.

Euro e produttività: la visione degli Euro-exiters

Anche se mai presentata in questi termini, la tesi ”Euro implica caduta produttività” è metodologicamente scomponibile in due step teorici indipendenti, più un semplice corollario. Il primo step coinvolge la relazione tra cambio fisso e domanda. Il secondo step riguarda la relazione tra domanda e produttività. I due step della tesi “Euro implica caduta produttività” sono:

Step 1. Passaggio a Euro (= introduzione cambio fisso) implica contrazione della domanda (in particolare nel settore dei beni commerciabili) per prodotti italiani.


Step 2. Nel lungo periodo, la domanda è la determinante principale della produttività del lavoro (cosiddetta legge di Kaldor-Verdoorn).
Corollario.

Se step 1 e 2 sono veri, la contrazione di domanda dovuta all’ingresso dell’Italia nell’euro avrebbe causato la contrazione di TFP.

Per motivi logici ed espositivi, conviene discutere i due step in ordine inverso. Cominciamo in questo post dallo Step 2 e rimandiamo alla seconda parte la discussione dello Step 1.

Step 2: Breve periodo, lungo periodo e (presunta) legge di Kaldor-Verdoorn

Come detto, centrale nello step 2 della tesi di euro-exit è la cosiddetta legge di Kaldor-Verdoorn (KV)[3]. Senza divagare in storicismi, questa “legge” altro non è che una semplice ipotesi di rendimenti di scala crescenti. Vale a dire: la produttività marginale di un fattore (es: lavoro) cresce al crescere della quantità di quel fattore utilizzata nella produzione. Non discuterò certo qui la veridicità di questa ipotesi[4]. Mi limito a suggerire, per cominciare, alcuni elementi di criticità della cosiddetta legge KV, elementi a mio avviso molto forti.

Una prima serie di obiezioni

Quattro aspetti mi sembrano particolarmente problematici.

a) Produttività del lavoro vs. TFP. La legge di KV, nella sua formulazione originale, e per come è trattata nella letteratura cosiddetta post-keynesiana, postula una relazione tra crescita della quantita’ prodotta e crescita della produttività del lavoro (LP); e non crescita di TFP. Eppure la tavole mostrate in precedenza indicano che la caduta in Italia (ma non solo in verità) è anche della produttività totale dei fattori (TFP). Mantenendo strettamente le lenti teoriche kaldoriane, come si spiega la più generale caduta di TFP, ben più cruciale da un punto di vista dell’evoluzione del sistema economico italiano?

b) Endogeneità. La legge KV postula una relazione tra crescita del PIL (dY)[5] e crescita della produttività del lavoro (dLP). L’assunzione decisiva è che dY causa dLP. Ma tale relazione (si veda Kaldor 1975, e tutta la letteratura seguente[6]) è testata via regressioni di forma ridotta (del tipo dLP = a + b dY) usando dati da diversi paesi. Perchè queste regressioni abbiano un benchè minimo senso statistico è noto che dY deve essere esogeno a dLP (cioé non deve essere causato da esso). Eppure, il problema di endogeneità è quasi abbagliante. È evidente che dY causa dLP, ma e’ altrettanto evidente che vale anche il viceversa, cioè che dLP causa dY. Quest’ultimo nesso di causalita’, infatti, e’ un supposto della teoria stessa, inclusa la KV: che esiste una funzione di produzione secondo la quale i fattori generano prodotto e piu’ produttivi sono piu’ prodotto generano. In parole povere, per i non esperti, se anche raccogliessimo dati su crescita media di produttività e prodotto per 100 paesi, stimassimo la relazione suddetta, e trovassimo che la crescita della produttività del lavoro è associata positivamente a quella del PIL (e cioè stimassimo un coefficiente b positivo nell’equazione sopra), le conclusioni sul reale meccanismo microeconomico sottostante (rendimenti crescenti a livello di impresa, learning-by-doing, costi fissi di entrata sul mercato?) sarebbero vuote. Perchè si tratterebbe di sola e semplice correlazione statistica.[7] Notate che trucchi retorici come utilizzo di “Granger causality” per stabilire causalita’ vanno bene, appunto,  per la retorica anti-euro ma non possono risolvere la piu’ profonda questione qui posta.

c) Domanda, offerta, e teoria dell’equilibrio. Da dove può provenire l’ipotesi Kaldoriana, apparentemente estrema, che dY sia esogeno rispetto a dLP nel lungo periodo? Nella formulazione di Kaldor, e nella letteratura seguente, l’ipotesi che dY sia esogeno rispetto a dLP è motivata dall’assunzione che, nel lungo periodo, dY non sia vincolata dal lato dell’offerta. Torneremo a breve su questo punto decisivo, ma l’idea che la crescita del reddito nel lungo periodo non dipenda da fattori di offerta è semplicemente il contrario di quanto tutta la macroeconomia moderna ritiene ovvio dagli anni ’70 in poi.[8]

Mi limiterò qui a chiarire un aspetto sul quale esiste, a mio avviso, una confusione gigantesca nel dibattito macroeconomico (soprattutto italiano, ma non solo). L’idea centrale è così riassumibile. Non si tratta, come ancora un certo mondo accademico keynesiano tradizionale pretende, di dover scegliere a quale campo, setta, o fazione si appartiene ex-ante: quello di chi crede che “il reddito sia determinato da fattori di offerta” da un lato; quello di chi crede che “il reddito sia determinato dalla domanda”, dall’altro. La macroeconomia moderna ha superato da tempo la necessità di doversi schierare. Lo ha fatto introducendo l’idea che il reddito (o altre variabili maroeconomiche rilevanti) è determinato in equilibrio. Cioè sia dalla domanda che dall’offerta e, quindi, dalla loro interazione attraverso il sistema dei prezzi[9]. È proprio dall’incontro con la teoria dell’equilibrio che nasce la rivoluzione copernicana avvenuta nella macroeconomia dagli anni ‘70 in poi[10].

Indicare quindi come insostenibile l’ipotesi centrale di Kaldor (secondo cui dY è esogeno a dLP perchè nel lungo periodo il lato dell’offerta è irrilevante nel determinare la crescita del reddito) non vuol dire automaticamente trasformarsi da “domandisti” a “offertisti”. Perchè oramai, come detto, la macroeconomia moderna non è fatta nè dagli uni nè dagli altri; ma semplicemente da “equilibristi”. A mio avviso è questo il punto decisivo che molte delle posizioni cosiddette non ortodosse nella letteratura faticano ancora a riconoscere. Posizioni per le quali, quindi, il mondo va sempre diviso ex-ante in neoclassici (“offertisti) e keynesiani (“domandisti”). Quando invece il progresso della disciplina ha individuato proprio nella teoria dell’equilibrio la sintesi superiore.

Torniamo quindi alla relazione tra reddito e produttività. Ovviamente, in un modello metodologicamente corretto, dLP e dY sono entrambe variabili endogene. Un approccio corretto di stima, quindi, richiederebbe un modello strutturale (a meno che non si pensi  di trovare variabili adeguate che possano fungere da variabili strumentali per dY: correlate con dY ma non direttamente con dLP), in cui (appunto) dY e dLP sono determinati in equilibrio. Altrimenti, la relazione semplicemente non è testabile. Dedurne relazioni di causalità a livello macro è un salto metodologico che, mi sia permesso, lascia senza fiato.

d) Micro vs. macro. Ma supponiamo anche che il punto sub a) non sia rilevante. Nella letteratura esiste una tensione, ancora non risolta, tra la dimensione micro e quella macro che nella legge di KV viene trascurata. Non è chiaro, cioè, se rendimenti crescenti siano validi a livello micro (funzione di produzione della singola impresa, in interazione con la struttura di mercato prevalente) oppure a livello aggregato (macro). L’approccio di KV originale, basato su dati aggregati, presume che rendimenti crescenti valgano a livello aggregato (oltre che micro, anche se questo non è modellizzato o formalizzato in nessun modo). Il punto chiave però è questo: rendimenti crescenti a livello micro non implicano tout court rendimenti crescenti a livello macro. Il tema e’ tecnicamente ostico e, se necessario, ci tornero’ ma, credetemi, la implicazione logica proprio non esiste (per gli esperti: basta “convessificare” nel passaggio da piccole imprese con IR ad aggregato con CR). Ma in ogni caso: perchè la legge KV abbia plausibilità macro (e di questo c’è bisogno nello step 2), rendimenti crescenti devono valere a livello aggregato. E questo non è affatto detto. Quanto meno va dimostrato. Ed è un lavoro non indifferente che hanno provato a fare in tanti anche durante gli ultimi vent’anni ed arrivando a conclusioni opposte.

e) La legge vale nel breve o nel lungo periodo? Leggendo la formulazione originale di Kaldor e Verdoorn, è chiaro che l’ipotesi sottostante alla legge di KV sia che la crescita del reddito determina la crescita della produttività del lavoro nel lungo periodo. Quindi dLP nell’espressione sopra andrebbe interpretato come “crescita media della produttività del lavoro” e dY come “crescita media del reddito o PIL”. Questo punto non è cruciale di per sè, ma per un argomento sottostante. Il problema di endogeneità, infatti, anche in un’ottica di lungo periodo, rimane intatto nella sua fondamentale rilevanza.

Obiezioni macro

Prescindendo dalla specificità della legge di KV, aggiungo ora una serie di obiezioni macroeconomiche quasi immediate che riguardano la presunta relazione tra “crescita del reddito” e “crescita della produttività” (nella direzione di causalità dal primo verso il secondo).

a)  Ancora su breve vs. lungo periodo. Come già detto, l’unica frequenza statistica in cui è plausibile parlare di relazione tra dY e dLP è quella di lungo periodo. Evidenza empirica recente mostra infatti che a frequenza cosiddetta di business cycle la correlazione tra produttività (del lavoro) e PIL (entrambi detrendizzati) ha mutato segno nei paesi industrializzati durante il periodo della Great Moderation (circa metà anni ottanta fino alla crisi recente): da positiva (quando crescita PIL aumenta, sale la produttività) a negativa. Vale a dire, la produttività del lavoro da prociclica è diventata anti-ciclica (o al massimo a-ciclica). Quindi, esattamente il contrario della legge di KV (se la volessimo applicare al breve periodo). Fernald (2013) (uno dei massimi studiosi mondiali di TFP e LP) mostra che la crescita della produttività (sia TFP che LP) negli USA è rallentata dal 2000 fino a pre-crisi negli USA. Cioè proprio in un periodo in cui la crescita media del PIL negli USA è stata molto sostenuta. Gali and Van Reins (2008) mostrano che un fatto stilizzato degli ultimi 20 anni è la cosiddetta vanishing procyclicality della produttività del lavoro. Barnichon (2010) mostra che, negli USA, la correlazione tra tasso di disoccupazione e produttività del lavoro ha cambiato segno, da negativo a positivo (quando la disoccupazione sale anche se la produttività sale).

b) È assodato quindi che la legge KV, ammesso che valga, vale solo nel lungo periodo. A frequenza di business cycle, la correlazione (non condizionata) tra dY e dLP è addirittura negativa da sempre in molti paesi europei. Già questo pone dei forti dubbi sulla relazione causale tra “euro e produttività”. Perchè? Assumiamo pure di fare il salto mortale da correlazione a “relazione causale”. Viene da chiedersi: è anche solo plausibile che una relazione causale che (se vale) vale strettamente solo nel lungo periodo, possa dispiegare i propri effetti istantaneamente?  Vale a dire, è plausibile che entrando nell’euro l’Italia abbia un presunto shock negativo di domanda (vedi sotto), il quale a sua volta istantaneamente determina una caduta della produttività (del lavoro)?[11]

c) Il terzo punto macroeconomico è più ampio e lo discuto a parte nel seguito.

Il ruolo della domanda aggegata

Il tema scientifico più ampio, e direi decisivo, è però quello che riguarda il ruolo della domanda. Nelle tesi che alimentano le posizioni su euro-exit vale un principio centrale: la crescita del reddito è sempre determinata dalla domanda. Questa proposizione è una sorta di mantra della letteratura keynesiana tradizionale o delle cosiddette posizioni non ortodosse. Una specie di legge naturale.

Quando scrivo “crescita del reddito sempre determinata dalla domanda”, intendo sempre: cioè sia nel breve (a frequenza di business cycle) che nel lungo periodo. Il corollario è quindi che anche la crescita della produttività sia sempre determinata dal lato della domanda, sia nel breve che nel lungo. Queste conclusioni non sono sorprendenti: nell’universo scientifico keynesiano tradizionale, a differenza di tutta la macroeconomia moderna, la dinamica non esiste. Quindi la distinzione tra breve e lungo periodo è irrilevante. Meglio: è non data. Eppure, proprio nell’analisi di un problema come quello della transizione anticipata da un regime di cambi flessibili a uno di cambi fissi (l’euro), sembrerebbe ovvio, direi obbligatorio, che la dinamica e/o il ruolo delle aspettative fossero un elemento centrale di un qualsiasi modello.

Ne seguono però alcune criticità di fondo.

(i) Se il reddito è sempre determinato dal lato della domanda, lo deve essere anche nel breve periodo. Eppure l’evidenza empirica (vedi sopra) ci dice che la correlazione tra dY e dLP nel breve periodo è negativa (o vicina a zero). Quantomeno a partire dalla cosiddetta Great Moderation (1985 in poi), che comunque include il periodo di inizio dell’euro.

(ii) Ma cosa vuol dire esattamente che il reddito è “determinato dal lato della domanda”? Abusando del ragionare per categorie, che questo sia vero nel breve periodo è visione coerente (nel senso che spiegherò sotto) con la macroeconomia  moderna (e quindi con la teoria dell’equilibrio). In particolare, con tutto l’approccio cosiddetto New Keynesian (NK)[12]. Ciò che rende il reddito determinato dal lato della domanda è l’ipotesi congiunta che nel breve periodo la capacità produttiva sia data e che prezzi e/o salari nominali siano lenti nel loro aggiustamento.

Da qui una proposizione di base: il reddito è determinato dal lato della domanda se (e solo se) siamo nel breve periodo (cioè a frequenza di business cycle). In una parola: “breve periodo” e “reddito determinato dal lato della domanda” sono concetti logicamente intimi.

(iii)  Breve ma importante digressione. In realtà il concetto di “ reddito determinato dal lato della domanda” è ben più complesso ed elaborato di quanto detto sopra. Lo spiego per dimostrare quanto sia fumoso invece nella letteratura keynesiana tradizionale (o eterodossa), in cui mancano del tutto (e direi per principio quasi) sia le microfondazioni, che (come già detto) la dinamica (cioè le due colonne portanti della macro moderna).

Ricorriamo ad un esempio. Supponiamo di essere in un mondo in cui i mercati sono imperfettamente concorrenziali e i prezzi sono rigidi nel breve periodo. Quindi le imprese hanno un minimo potere di mercato nel fissare i prezzi.[13]  Supponiamo che si verifichi uno shock di offerta negativo: ad esempio, un aumento esogeno del prezzo del petrolio (che il prezzo del petrolio sia esogeno, cioè determinato sui mercati internazionali, è ipotesi ragionevole). Chiediamoci: che cosa succede in equilibrio a prezzi e produzione? E soprattutto: nel breve periodo, con prezzi rigidi, in che senso il reddito è determinato dal lato della domanda? Dopo tutto lo shock è dal lato dei costi di produzione, cioè proviene “dal lato dell’offerta”.

Con costi energetici più alti, le imprese subiscono un aumento dei costi marginali di produzione (correnti e futuri). A parità di impiego di lavoro, quindi, sarà per loro efficiente (cioè sarà “un equilibrio”) aumentare i prezzi. Siccome aggiustare i prezzi è costoso (per svariati motivi, anche qui la letteratura è immensa), le imprese decideranno di aumentarli meno di quanto farebbero se non ci fossero costi di aggiustamento (e in più sulla base di quanto ci si aspetta che saranno i costi marginali in futuro). Perciò parte della risposta dell’impresa sarà via i prezzi, parte via una riduzione della quantità di produzione.

Ad un dato sentiero dei prezzi fissato dall’impresa, corrisponderà una certa quantità di prodotto domandata dai consumatori (determinata a sua volta dalle scelte di consumo degli agenti). Poichè nel breve periodo la capacità produttiva è data, la quantità di produzione fissata dalle imprese sarà pari esattamente alla quantità domandata a quel dato (sentiero di) prezzo. In questo senso (e solo in questo senso) il reddito è “determinato dal lato della domanda”.

In risposta a un incremento del prezzo del petrolio (shock di offerta negativo) avremo quindi due implicazioni:

(i) Reddito (PIL) e prezzi si muovono in direzione opposta (incidentalmente, questo e’ il fatto stilizzato noto come “stagflazione” che ha fatto crollare tutta l’impalcatura keynesiana negli anni ’70 quando le economie avanzate sono state colpite dagli shock petroliferi ed abbiamo avuto sia inflazione che caduta del reddito);

(ii) Il reddito è determinato dal lato della domanda anche se lo shock che colpisce l’economia proviene dal lato dell’offerta.

Che cosa vuol dire tutto questo? Vuol dire che possiamo vivere in un mondo  in cui:

(i) gli shock sono dal lato dell’offerta,

(ii) reddito e prezzi si muovono in direzione opposta, e comunque

(iii) il reddito è determinato dal lato della domanda (ma nel senso spiegato sopra).[14]

E’ proprio questo il motivo per cui nella macroeconomia moderna la letteratura keynesiana tradizionale si è arenata scientificamente. Perchè non è stata in grado di far coesistere l’idea che il reddito sia determinato dal lato della domanda con il fatto che gli shock possano originare dal lato dell’offerta. Nel mondo keynesiano tradizionale, “reddito determinato dal lato della domanda” implica, sempre, che prezzi e produzione si muovano nella stessa direzione (se la domanda sale, produzione e prezzi salgono, e viceversa).

La macroeconomia moderna si è quindi affrancata da concetti come “demand-determined”, abbracciando la teoria dell’equilibrio. Proprio per poter spiegare che cosa succede al comportamento simultaneo di prezzi e produzione anche quando gli impulsi sono dal lato dell’offerta (tipo shock petroliferi). Il concetto prevalente diventa quello di produzione e prezzi di equilibrio, cioè il risultato endogeno (ottenuto attraverso l’aggregazione del comportamento individuale di imprese e consumatori) dell’effetto di shock esogeni simultanei ed alternativi (appunto, sia di domanda, che di offerta).

Torniamo ora al nostro tema. Il problema dello step 1 della tesi in discussione, non è quindi il breve periodo. Bensì, il lungo periodo. Perchè la legge di KV possa avere anche solo plausibilità, è necessario assumere che il reddito sia determinato dal lato della domanda nel lungo periodo. Se questo è vero, poichè la crescita del reddito determina la crescita di LP nel lungo periodo, allora segue che la domanda determina la crescita di LP nel lungo periodo.

Da cui la seguente obiezione: è plausibile che la crescita del reddito sia determinata dalla domanda sempre, cioè non solo nel breve periodo quando i prezzi nominali sono rigidi, ma anche nel lungo periodo, quando le rigidità di prezzi e salari sono irrilevanti? Evidentemente no. Poichè tale ipotesi richiederebbe assunzioni del tutto implausibili sul grado di rigidità di prezzi e salari. E incoerenti con tutte le stime micro (cioè a livello di varietà individuali di singoli prodotti) sulla frequenza di aggiustamento dei prezzi.[15]

Quindi, delle due l’una. O si crede che il reddito sia determinato dal lato della domanda, e quindi (per gli argomenti esposti sopra) l’ottica è necessariamente di breve periodo (cioè un orizzonte statistico lungo il quale è ragionevole immaginare che prezzi e salari siano lenti ad aggiustarsi). Oppure si crede nella legge di KV. Le due cose insieme non possono stare. Perchè nel breve periodo la legge di KV è confutata: come detto, la produttività del lavoro è (diventata) anti-ciclica[16]. Nel lungo periodo, possiamo anche ipotizzare che la legge di KV valga, ma allora logicamente l’idea che la produzione sia determinato dal lato della domanda è insostenibile.

Riassumendo su Step 2.

Per riassumere, l’illusione ottica di fondo che emerge nello step 2 della tesi post-keynesiana su euro-exit è molteplice. Schematicamente lo step 2 della tesi di euro-exit postula:

domanda –> dY –> dLP

Come detto, i problemi sono due. Primo, si assume una relazione “dY causa dLP” (con segno positivo), in base a una assunzione di esogeneità di dY statisticamente del tutto arbitraria. In un mondo con rendimenti crescenti nell’aggregato, può certamente aversi che dY e dLP siano legati positivamente nel lungo periodo.[17] Ma questo avviene appunto “in equilibrio”, il che vuol dire che dY e dLP si influenzano a vicenda.

Quindi la relazione tra dY e dLP va testata empiricamente ricorrendo a metodi econometrici strutturali, in cui entrambi le variabili sono potenzialmente endogene (cioè si influenzano a vicenda). Inoltre, tale approccio richiede che l’ipotesi di rendimenti crescenti valga nell’aggregato, e non solo a livello di singola impresa.

Secondo, se anche accettiamo che la relazione tra dY e dLP esiste, dY deve intendersi come output di equilibrio. E non come output determinato dalla domanda aggregata. Il problema è che nell’ottica keynesiana tradizionale, la distinzione tra “reddito determinato dal lato della domanda” e “reddito di equilibrio” semplicemente non esiste.  Perchè in quel mondo, come detto, il reddito è sempre determinato dal lato della domanda, anche in un orizzonte implausibile come il lungo periodo. Che però è esattamente quello in cui è postulata la legge KV.

Nel mondo keynesiano tradizionale è quindi meccanico concludere che se “dY causa dLP” (ammesso che ci dimentichiamo di tutti i problemi di endogeneità di cui sopra) questo voglia dire anche che “la domanda causa dLP”. Quando, in realtà, al massimo è il reddito di equilibrio che causa dLP, e non la domanda che causa dLP. E, come detto, il reddito di equilibrio altro non è che… il reddito di equilibrio! Il quale, quindi, può essere guidato sia da shock di domanda come da shock di offerta (o da entrambi).

Un esempio di confusione tra breve e lungo periodo.

Per fare un esempio, in questo post  , l’autore (Alberto Bagnai) mi sembra cada vittima della stessa confusione (o meglio non distinzione) tra breve e lungo periodo. Per corroborare la tesi secondo cui, con l’euro, il cambio sovrapprezzato avrebbe causato una caduta della domanda e quindi della produttività (nel settore dei beni traded), l’autore mostra l’andamento temporale di cambio reale ed esportazioni. Indicando (anche se in assenza di alcuna evidenza statistica) che nel 1996 un apprezzamento reale della lira ha causato una caduta delle esportazioni. Fin qui tutto accettabile, anche se solo supposto qualitativamente.

Il punto è in realtà un altro. E’ quasi ovvio che nel breve periodo un apprezzamento del cambio reale si accompagni a una caduta di export (domanda estera).[18] Ma appunto, nel breve periodo! Infatti è facile osservare che, nei trimestri successivi all’apprezzamento del 1996, il saldo della bilancia commerciale riassorbe lo “shock”. Eppure, poichè la caduta nel tasso di crescita di TFP e LP in Italia inizia circa in quel periodo (1995-96)[19], questo dato è utilizzato ad esempio di shock di domanda che causa la caduta di produttività (nel settore traded). In altri termini: una contrazione ciclica della domanda estera avrebbe causato un (quasi) immediato effetto sulla produttività. La contraddizione è evidente. Infatti, se tale effetto (da domanda a produttività) è mai possibile, lo è perchè vale la suddetta legge di KV. Ma la stessa legge di KV, come detto, vale solo nel lungo periodo. Come si possa spiegare una trasmissione così rapida, quasi immediata, rimane un mistero.[20]

****

Un passo indietro. Lo Step 1 della tesi post-keynesiana su euro-exit.

Nonostante quanto chiarito finora, assumiamo comunque che sia valida l’ipotesi che nel lungo periodo la crescita del PIL in equilibrio causi la crescita della produttività. Questa implicazione emerge in modelli con rendimenti crescenti nell’aggregato, o perché, ad esempio, esiste una qualche forma di learning-by-doing.[1] Non solo. Digeriamo anche che il reddito sia determinato dal lato della domanda nel lungo periodo, così che la domanda determina anche la produttività nel lungo periodo. Cioè dimentichiamoci di tutte le critiche precedenti. Veniamo allo step 1 della tesi su euro-exit. Lo ricordo per comodità qui sotto:

Step 1: introduzione Euro –> shock negativo di domanda (nel settore traded)

Secondo lo step 1, l’introduzione del cambio fisso avrebbe determinato un persistente shock negativo di domanda (nel settore traded). Quindi, se diamo per buono lo step 2, la contrazione della domanda avrebbe poi comportato una contrazione del reddito, che a sua volta ha comportato una contrazione della produttività.

Tornando allo step 1, il punto ovviamente è: perchè l’introduzione dell’euro (inteso come passaggio da cambi flessibili a fissi) avrebbe determinato uno shock negativo di domanda?

Le ipotesi al proposito sono diverse. Ne elenco tre.

* Primo, il sentiero di transizione all’euro ha comportato politiche monetarie e fiscali di austerità (deficit/Pil al 3%, riduzione dell’inflazione, etc..) che hanno ridotto la domanda aggregata.


* Secondo, il cambio da lira a euro ha causato un incremento esogeno (una tantum) del livello generale dei prezzi, con conseguente caduta della domanda.


* Terzo, il cambio nominale lira-euro ha comportato, per dati prezzi relativi, un apprezzamento iniziale eccessivo del tasso di cambio reale. Questo eccesso iniziale di apprezzamento reale ha eroso la competitività del settore export, contraendo la capacità di espansione sui mercati internazionali, e quindi la domanda estera.

Di seguito tralascio le prime due ipotesi. La prima perchè suppone che la causa della contrazione della domanda sia l’austerità fiscale, cioè qualcosa di logicamente diverso dalla fissazione del cambio.[2] La seconda (“con l’euro è aumentato tutto”) perchè è stata discussa a lungo nei primi anni della moneta unica. Con la conclusione che il presunto aumento discreto nel livello dei prezzi è stato in realtà ampiamente ridimensionato nei dati. In ogni caso, sono passati 13 anni da allora e, secondo questa teoria, l’effetto maggiore avrebbe dovuto esserci al momento dell’introduzione dell’euro e avrebbe dovuto essere decrescente nel tempo. Impossibile pensare che la recessione in corso e il rallentamento di produttività che andiamo osservando da un decennio sia dovuto ad una caduta di domanda che sarebbe avvenuta nel 2000 con la sua intensità massima.

Veniamo quindi alla terza supposta causa di una contrazione della domanda: lo squilibrio nel tasso di cambio reale.[3] Questa tesi va riespressa nel modo seguente.

(i) Un tasso di cambio eccessivamente apprezzato ha causato una caduta di competitività del settore dei beni commerciabili (traded), perciò una contrazione della domanda estera, e quindi una caduta della produttività nel settore traded.

(ii) La contrazione della domanda nel settore traded ha dirottato la domanda nel settore non-traded (servizi, eccetera). In questo settore, però (nonostante un plausibile incremento della domanda) la produttività non è salita, perché le riforme del mercato del lavoro introdotte in Italia a partire dal 1997 avrebbero favorito verso quel settore un flusso di lavoratori a bassa produttività.

La contrazione aggregata della produttività è quindi il risultato di (i) + (ii). La parte più controversa di questa tesi è la (i), cioè quella che riguarda il settore traded. È riformulabile così:

a) rivalutazione iniziale eccessiva del tasso di cambio reale →
b) caduta domanda nel settore traded →
c) caduta produttività settore traded.

Alcuni spunti di questa tesi sono plausibili e interessanti, anche se ben noti.[4] Ad esempio, l’effetto composizione tra settore traded e non-traded come motore della dinamica della produttività. Non interessa per ora discutere questo punto. La chiave di tutto, e da cui quindi muove tutta la tesi di euro-exit, è che la causa primaria sia la fissazione del tasso di cambio nominale (e quindi anche reale, per dati prezzi iniziali o rigidi nei periodi succesivi). Quindi i punti a) e b) di cui sopra. Il punto c) altro non è che una applicazione settoriale della tesi di KV (la cui dubbia validità statistica abbiamo già discusso in precedenza).

Discuto a) e b) qui di seguito.

a) Rivalutazione eccessiva del cambio reale?

È centrale nelle tesi di euro-exit l’idea che il tasso di cambio nominale della lira con l’ECU ristabilito nel 1996 (e quindi il tasso di cambio successivo con l’euro) abbia determinato, per dati prezzi relativi iniziali, un tasso di cambio reale (relativamente al resto dell’Unione) eccessivamente apprezzato. Abbiamo già indicato all’inizio l’impossibilità logica di una tesi di questo genere. Da un lato, la caduta di LP riguarda quasi tutti i paesi dell’euro. Ma questo è ovviamente inconciliabile con l’idea che tutti i paesi possano avere simultaneamente “sovrapprezzato” il loro tasso di cambio reale effettivo.

Un primo aspetto che rimane totalmente indefinito (ma che richiederebbe un’analisi statistica) nelle tesi di euro exit è il seguente: l’apprezzamento reale del cambio (posto che sia la causa esogena di tutto), e il presunto shock di domanda che ne consegue, è da intendersi come temporaneo o permanente? Si noti subito la difficoltà metodologica nel rispondere a questa domanda nel “mondo post-keynesiano”, dove la dinamica non è concettualmente data nè formalizzata. Interpretando le tesi di euro-exit, mi sembra di poter dire che si debba intendere come shock permanente di domanda negativo. La cui causa esogena è appunto un permanente sovrapprezzamento del cambio reale.

Da cui due domande iniziali: (i) può darsi il concetto di shock di domanda permanente? (ii) E quindi: può il tasso di cambio reale essere permanentemente sovrapprezzato?

La risposta ad entrambe le domande è negativa. O meglio, i due concetti possono darsi se e solo se si assume che i prezzi nominali siano permanentemente rigidi. Ma questo, come detto, non solo è logicamente incoerente, è anche contrario a ogni evidenza empirica. E in più, se lo shock iniziale di domanda deve essere uno shock permanente al tasso di cambio reale, ciò implica che il cambio reale dell’Italia sia una variabile non stazionaria. Il che, oltre a confliggere con l’idea che nel lungo periodo valga la parità dei poteri d’acquisto (PPP, secondo la sigla inglese comunemente usata), andrebbe dimostrato con test econometrici.[5]

Il “gap” nel tasso di cambio reale

Nel dettaglio, ciò che rimane sempre vago nella locuzione “cambio sovrapprezzato” è: eccessivamente rispetto a quale parametro? Rispondere a questa domanda richiede una misura (o stima) del tasso di cambio reale di equilibrio rispetto al quale il tasso di cambio reale iniziale effettivo sarebbe stato fissato “troppo apprezzato”. A sua volta, costruire una misura del tasso di cambio reale di equilibrio richiede un modello quantitativo. A quanto mi risulta, non c’è traccia di queste stime nelle tesi di euro-exit.

Ma c’è di più. È risultato econometrico ben noto (e si lega al concetto appena richiamato di PPP) quello secondo cui il tasso di cambio reale esibisce, nei dati, un comportamento di reversion to the mean, cioè un comportamento stazionario che implica che se il punto di partenza è “troppo alto” rispetto al valore di equilibrio di lungo periodo, entro un certo periodo (nel medio periodo, la cosiddetta half-life) il tasso di cambio reale tenderà a riallinearsi al suo valore di equilibrio di lungo periodo. Il motore dell’aggiustamento nel medio-lungo periodo sono, ovviamente, i prezzi relativi. Che possiamo certamente assumere “rigidi” nel breve periodo. Ma che, ancora una votla, è implausibile assumere rigidi per periodi superiori a quattro/cinque trimestri (secondo le stime più accurate), anche per l’area euro.[6]

Ebbene, assumiamo pure che il tasso di cambio reale di partenza fosse per errore eccessivamente apprezzato. Resta da spiegare un punto cruciale: perchè poi negli anni successivi all’ingresso nell’euro il tasso di cambio reale ha continuato ad apprezzarsi? O meglio, perchè non c’è traccia di reversion to the mean? Non è forse già debole l’ipotesi iniziale sub a), da cui muove tutta l’impalcatura dello shock di domanda nel settore traded? Ancora una volta bisogna appellarsi a rigidità nominali di prezzo del tutto implausibili nel lungo periodo per spiegare questo fatto stilizzato.

In ogni caso, il punto sull’eccessivo apprezzamento iniziale del cambio reale è la premessa di tutto. Sul quale essere molto prudenti e rigorosi (con modelli ed econometria) prima di saltare ai punti (b) e (c). In una parola, il ricercatore, prima di ogni altra cosa, dovrebbe prima mostrare che il tasso di cambio reale iniziale dell’Italia fosse eccessivamente apprezzato (e abbia continuato ad esserlo) rispetto al suo valore di lungo periodo. Cioè produrre una stima del cosiddetto real exchange rate gap (la differenza tra cambio reale effettivo e di equilibrio). È solo in presenza di “gaps” positivi che si può parlare di “eccessivo” apprezzamento

Una prevedibile iniziale contro-obiezione potrebbe essere: ma è stato l’afflusso di capitali dal centro verso la periferia, e successivo alla nascita dell’euro, che ha generato un persistente apprezzamento del tasso di cambio reale. Questo canale, certamente plausibile per il resto della periferia dell’euro (i cosidetti PIGS), non sembra plausibile per l’Italia, in cui la crescita del differenziale di inflazione rispetto all’unione non può certo assumersi sia stata dovuta a un boom di domanda come conseguenza di un boom nei flussi di capitale. Innanzitutto perchè di boom in Italia non c’è traccia da parecchio tempo. In secondo luogo, perchè un presunto boom di domanda contraddirebbe la premessa stessa di partenza della tesi di euro-exit (cioè lo shock permanente negativo di domanda).

Torneremo su questo punto tra poco. Ma è evidente che la logica della teoria economica già qui ci porta a presumere l’opposto di quanto assunto dalla tesi di euro-exit (“apprezzamento cambio” causa “caduta produttività”). Cioè che sia la caduta di lungo periodo della produttività in Italia la causa principale del persistente apprezzamento del tasso di cambio reale (con conseguente drammatica perdita di competitività).

In realtà, una risposta più sofisticata alla contro-obiezione è la seguente. Certamente la dinamica dei flussi di capitale ha contribuito in modo decisivo all’apprezzamento del cambio reale nei PIGS (con un forte dubbio sull’Italia, come già detto).  Questo genera però il problema di stimare, ancora una volta, l’effetto sul tasso di cambio reale di equilibrio della transizione al nuovo sistema euro. Per semplificare: non sarebbe corretto assumere che, con la transizione ad un’area valutaria comune, il tasso di cambio reale di equilibrio dei PIGS, o dell’Italia, sia rimasto costante. Ad esempio, perchè con la moneta unica l’integrazione dei mercati dei beni e finanziari (seppur imperfetta) è certamente progredita. Come si vede, questo aspetto complicherebbe di molto la stima econometrica del gap nel tasso di cambio reale. Perchè entrambi gli elementi del gap sarebbero non costanti nel tempo.

b) Shock negativo di domanda nel settore traded?

Ma proviamo anche a tralasciare il punto precedente sull’eccesso iniziale di apprezzamento del cambio reale. La premessa rimane comunque che il settore traded avrebbe subito uno shock negativo di domanda. È plausibile questo punto? Soprattutto, è plausibile quantitativamente in modo da spiegare poi il punto c), cioè la drammatica discesa di LP (ma anche di TFP) in Italia?

b.1) Export e rivalutazione del cambio.

La figura qui sotto mostra, a partire dal 1995, l’andamento del tasso di cambio effettivo reale (misurato come costo relativo unitario del lavoro[7]) e delle esportazioni reali (di beni e servizi) in Italia. Si noti che mostro le esportazioni, e non il saldo della bilancia commerciale (cioè la differenza tra export e import), perchè mi interessa valutare se esista un effetto specifico di lungo periodo sul settore traded della presunta persistente rivalutazione del cambio reale.

In questo caso è utile guardare al trend nelle due variabili. Si nota chiaramente il trend di apprezzamento del tasso di cambio reale. Ma allo stesso tempo si nota anche un trend crescente delle esportazioni, cioè della misura di output del settore traded. Da un primo superficiale sguardo ai dati non è affatto chiaro dove emerga un effetto permanente negativo “di domanda” di lungo periodo sull’export italiano, che possa fare anche solo da premessa a una contrazione nel tasso di crescita della produttività nel settore traded. [8]

tasso di cambio

b.2)  Effetto pro trade vs. effetto contra trade.

Esistono in realtà ottime ragioni di pensare che l’introduzione dell’ euro sia stato anche uno shock positivo di apertura al commercio internazionale per una piccolo economia aperta come l’Italia. Qui i riferimenti teorici sono ai cosiddetti “nuovi modelli di trade” con eterogeneità tra imprese e (si noti) produttività endogena, lungo le linee di Melitz (2003) e letteratura seguente. In questa tipologia di modelli, oramai la frontiera dei modelli di trade, le imprese sono eterogenee e la produttività (si noti) è endogena. In questi modelli, uno shock del tipo “riduzione della volatilità del cambio” (cioè l’adozione di un cambio fisso) è equivalente a uno shock che riduce le barriere al commercio internazionale. Nel modello, e in risposta a un shock che riduce le “barriers to trade”:

(i) è più profittevole accedere al mercato dell’export;

(ii) la produttività aggregata aumenta endogenamente, perchè sono le imprese più produttive quelle che, al margine, si auto-selezionano nel mercato dell’export.

Se accettiamo il punto a) discusso a lungo in precedenza, un eccessivo apprezzamento iniziale del cambio reale comporta certamente uno shock negativo di domanda. Ma, allo stesso tempo, è plausibile che la compressione della volatilità del cambio nominale che si accompagna all’adozione dell’euro (per giunta dopo un processo lungo anni di integrazione del mercato comune) sia un potenzialmente importante effetto pro-trade. [9]

Per fare un punto quantitativamente rilevante un ricercatore dovrebbe considerare entrambi gli effetti: un “effetto negativo contra trade” (per presunto eccessivo apprezzamento iniziale del cambio reale) da interagire con un “effetto positivo pro trade” (dovuto alla riduzione permanente della volatilità dei cambi intra Unione[10]).

È plausibile che l’effetto netto sia un forte shock negativo di domanda? Ho molti dubbi (anche se non si tratta di una impossibilità logica). Ancora una volta, il quesito è interessante. Ma richiede, prima di trarre alcuna conclusione, un modello stimato, quantitativo, e con microfondazioni, per misurare con precisione l’interazione dei due effetti sul livello di trade.[11]

b.3) Discesa dei tassi di interesse.

Secondo, assumiamo pure che l’effetto contra trade dell’euro sia di molto superiore all’effetto pro trade (punto che rimane tutto da valutare con grande rigore e attenzione). Sottolineo “di molto”. Ricordiamo infatti che l’obiettivo finale rimane quello di avere tra le mani uno shock negativo di domanda così forte da riuscire a spiegare un fatto aggregato macroscopico quale la caduta aggregata di TFP in Italia.[12]

Molti sembrano dimenticare che, simultaneamente all’ingresso nell’euro, è successo qualcos’altro di macroscopico in Italia: una riduzione massiccia dei tassi di interesse. Poco importa se la discesa dei tassi sia stato un riflesso di un trend al ribasso mondiale nei tassi a lungo termine oppure un effetto specifico dell’ingresso nell’euro (per una compressione di diverse componenti del premio al rischio). È certamente vero, comunque, che la discesa relativa dei tassi a lungo termine nei paesi della periferia euro (inclusa l’Italia) sia stata decisamente superiore che in altri paesi.

Rimane un semplice fatto: che una discesa dei tassi a lungo termine (sostanzialmente esogena per una piccola economia aperta come l’Italia) altro non è che un forte shock di domanda aggregata positivo. Eccoci quindi di fronte all’ipotesi di “due shock di domanda”:

(i)  Shock di domanda presunto negativo nel settore traded (se, in base a quanto discusso sotto b.1, si assume che “shock against trade” sia molto più forte di “shock pro trade”).

(ii) Shock di domanda aggregata fortemente positivo dovuto alla discesa dei tassi di interesse (e non presunto, ma oggettivo, perchè chiaramente esogeno per l’Italia).

Ne sorge una nuova domanda di ricerca (pur ignorando tutte le perplessità iniziali sul canale “domanda causa produttività”). Combinando lo shock negativo in (i) con lo shock positivo in (ii), qual è l’effetto netto su produttività aggregata?  E’ quantitativamente plausibile immaginare che l’effetto netto sia ancora uno shock negativo di domanda così forte da essere in grado di spiegare la massiccia caduta aggregata di TFP in Italia?

Se anche concludessimo che l’effetto netto è uno shock esogeno di domanda negativo, nella migliore delle ipotesi sarebbe uno shock piccolo. Può tutto questo spiegare il più imponente fatto macroeconomico italiano degli ultimi 25 anni?

È un’ipotesi che vale la pena indagare seriamente. Va da sè che questo richiede un modello strutturale in cui entrambi gli shock interagiscono. Ma appunto. Ci vuole un modello rigoroso: dinamico (perchè l’effetto della discesa dei tassi richiede di modellare un effetto di sostituzione intertemporale tra consumo corrente e futuro), microfondato (per valutare l’effetto a livello di singola impresa di pro trade vs. against trade effect), e stimato con metodi strutturali (per avere una idea empirica quantitativa dell’effetto finale su produttività). Ho accennato a questa ipotesi di modello e progetto di ricerca in una nota a piè di pagina precedente.

Il ruolo dei flussi di capitale

Si dirà (nuovamente). Ma è stato per colpa (o grazie) all’euro che si è avuto uno shock esogeno così forte di riduzione dei tassi a lungo termine nella periferia. Questo effetto ha comportato un afflusso di capitali verso la periferia, e una spinta all’apprezzamento del tasso di cambio reale nella periferia.[13]

Certamente, e infatti tutto questo punta nella direzione della mia spiegazione preferita per la crisi recente della periferia dell’euro: cioè un sudden stop nell’afflusso di capitali.[14] Ma il punto rimane. Che cosa c’entra l’euro inteso come adozione di un cambio nominale permanentemente fisso? Possiamo pensare che sia stata esclusivamente l’ eliminazione del rischio di cambio a favorire un massiccio afflusso di capitali dal centro verso la periferia? Per giunta in un mondo in cui la “copertura” dal rischio di cambio è accessibile a ogni impresa o istituzione finanziaria? E se anche fosse: dovremmo ritenere una sciagura l’euro per aver favorito flussi di capitale verso la periferia meno sviluppata dell’area?

Tutto questo ha invece a che fare con una delle questioni di policy più importanti del nostro tempo: che cosa determina e come si gestiscono i flussi di capitali tra paesi? Vanno tassati? Vanno sussidiati? Che esternalità macro generano? Qual è il regime di cambio ottimale in presenza di massicci afflussi di capitale? Come giudichiamo se flussi di capitale sono eccessivi per una piccolo economia aperta?

Soprattutto. In un’area valutaria comune, come si gestiscono, ex-ante ed ex-post, i flussi di capitale? Dovremmo avere dei target sugli squilibri di bilancia (ad esempio) su deficit/PIL? Quand’è che uno squilibrio di bilancia dei pagamenti è da giudicare eccessivo/inefficiente? [15]

E’ chiaro che tutte queste sono ipotesi e domande ben diverse da “euro = cambio fisso”, e quindi (soprattutto) dal suo (azzardato) corollario: usciamo dall’euro e riprendiamoci la flessibilità del cambio. È altresì vero che massicci (e potenzialmente pericolosi) flussi di capitale colpiscono le economie in ogni parte del mondo, indipendentemente dal fatto che abbiano adottato cambi fissi o flessibili. Esempi macroscopici recenti di paesi con cambi flessibili e con importanti problemi di gestione dei flussi di capitale sono la Turchia e il Brasile. È paradossale notare che molti dei paesi che fronteggiano flussi di capitale massicci tendono ad adottare ex-post regimi di cambio fisso o semi-fisso, proprio per evitare l’eccesso di apprezzamento della valuta.

Ma l’Italia ha avuto un boom o una contrazione della domanda aggregata?

Il dibattito “Italia e euro” è fonte di grandi stimoli. Uno spunto che mi sembra di grande interesse è il seguente. I dati sulla crescita anemica del PIL in Italia negli ultimi 15-18 anni sono sotto gli occhi di tutti. Anche di fronte alla discesa dei tassi di cui detto, certamente non è possibile sostenere che l’Italia abbia avuto un boom di domanda. (Infatti il mio punto precedente è sulla presunta, e tutta da misurare, magnitudo netta dello shock negativo di domanda.)

Tutto questo ci consegna un puzzle di estremo interesse: nonostante una così forte contrazione dei tassi di interesse a lungo termine, perchè l’Italia è l’unico tra i paesi della periferia euro che non ha avuto un boom nei primi anni dell’euro (a differenza di Spagna, Irlanda, e in parte Portogallo e Grecia)? Quanto meno questi paesi hanno goduto, per una certa fase, di un boom di consumi e investimenti. In un parola, in Italia, stiamo avendo oggi l’ “hangover” senza avere neanche fatto il “party” la sera prima.

Anche questa mi sembra una possibile, appassionante, ipotesi di ricerca. La mia ipotesi preferita sul perchè l’Italia non sia stata in grado di trarre alcun vantaggio dalla discesa dei tassi di interesse riguarda le imperfezioni finanziarie. Credo quantomeno che troppo a lungo il dibattito in Italia sulle cosiddette riforme strutturali si sia concentrato solo sul mercato dei beni e del lavoro, e pochissimo sul mercato del credito. Una manifestazione drammatica dello sviluppo ancora primitivo dei mercati finanziari in Italia lo stiamo vivendo oggi con la realtà del cosiddetto “credit crunch”. Incidentalmente, ed in linea con Reis (2013), credo che imperfezioni finanziarie siano anche cruciali per spiegare la mis-allocazione di capitale tra settore traded e non-traded che è una delle ipotesi plausibili per la caduta di TFP in Italia.[16]

Nuovamente, niente a che fare con cambio fisso o flessibile stricto sensu. E se ciò è anche solo minimamente vero, forse vale la pena riflettere un momento prima di invocare scenari di euro-exit. Magari senza una minima proiezione dei costi catastrofici che ciò avrebbe per il nostro sistema bancario.

Nessuno nega che l’euro sia una costruzione molto imperfetta. Ma un conto è valutarne l’imperfezione ex-ante (per l’assenza di meccanismi di risk-sharing a vari livelli, per l’assenza di una vera unione bancaria, etc.). Un altro, e ben diverso, è anche solo concepire, per una economia vulnerabile dal punto di vista finanziario come l’Italia, di uscire ex-post condizionatamente al fatto di averne fatto parte per 13 anni. Soprattutto quando gli argomenti scientifici sull’effetto negativo aggregato dell’euro sulla nostra economia sono ancora così fragili.

STAY TUNED!

DT

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37 commenti Commenta
paolo41
Scritto il 19 Ottobre 2013 at 17:19

l’ho letto una volta , ma merita di essere letto ancora un paio di volte per poter fare osservazioni in merito. La prima impressione è che ci troviamo ancora davanti ad un altro “professore” che vive staccato dalla pura realtà e delle decisioni dei “professori” trasferiti alla politica credo che ne abbiamo sperimentati anche troppi e che dal loro operato provengano molti dei nostri mali.
Se si potesse parlare direttamente con Prof. Monacelli mi piacerebbe porgli, alla fine della sua dotta esposizione, la seguente domanda:
come mai un operaio prima dell’euro guadagnava dai LIT. 1.200.000 a 1.500.000 al mese, pagava la rata del mutuo e non aveva problemi ad arrivare alla fine del mese, anzi risparmiava qualcosa e invece ora con € 1.300/1.400 al mese, cioè il doppio dell’equivalente in lire, non arriva alla fine del mese ?????

kry
Scritto il 19 Ottobre 2013 at 17:38

Ammazza Danilo lavoro notevole ma per me impossibile da leggere, troppo lungo ( non è una critica è un mio problema). Mi permetto lo stesso di dire la mia. La vera causa del crollo della produttività italiana sta tutta nella miopia e immobilismo della classe politica. Soprattutto non ha capito le potenzialità della tecnologia applicata al sistema produttivo e a quello che avrebbe portato la globalizzazione. La nostra produttività con cosa la misuriamo con il costo per un prodotto e questo costo cosa ingloba, anche tutta l’inefficenza del sistema italia in maniera particolare pubblico sovvenzionato a furor di tasse. Ci si è mossi poco e in quel poco che è stato fatto non si è guardato al bene comune/del paese e al lungo periodo, si guarda solo al subito con un voglio esigo pretendo tutto e solo per gli amici o a chi mi fa più comodo.

draziz
Scritto il 19 Ottobre 2013 at 19:15

Ciao Dream,
corposo lavoro, complimenti!
Da uomo della strada, quale sono, e con le mani sempre “in pasta” come ben sai, mi attengo ad una regola basilare:
la produttività esiste se esiste la domanda, certamente, ma fondamentale è il costo, di quello che fabbrichi, per unità di prodotto.
Per assurdo puoi anche aumentare le vendite anno dopo anno ma se, nel contempo, aumentano anche i costi fissi e quelli variabili alla fine hai un risultato econmomico inferiore (parliamo di ROE e ROI, che già conosci).
Nella situazione in cui si trovano la maggior parte delle imprese italiane, quelle che non hanno trasferito la produzione all’estero, il risultato finale del succitato discorso è semplicemente il… fallimento.
Costo dell’energia elettrica più alto del 30% del resto d’Europa, tassazione infame che colpisce non solo il risultato aziendale ma anche i consumi, riducendo quindi quella domanda che stimola la produttività, e la liquidità da poter reinvestire in nuovi strumenti produttivi (siano macchinari o forza lavoro, in base al bene prodotto) e fantascienza fiscale che privano chi imprende di una pianificazione certa.
Se aggiungi un’Euro “forte” solo grazie alla “pirlaggine” interessata di qualcuno all’interno dell’Europa (e della BCE) che impedisce agli Stati meno “virtuosi” di risalire dal fango hai il quadro completo in maniera molto semplicistica.
Uscire dall’Euro ci potrebbe costare, ma molto meno di quello che ci costerà in futuro il rimanenerci.
Riparliamoci l’anno prossimo, dopo che avranno spiegato il balzo del prelievo diretto ed indiretto causato dalle “necessità” di adempiere al fiscal compact.
Vedrai che quando la maggior parte dei risparmi accantonati sui conti correnti di tutti saranno “evaporati” a furia di “aggiustamenti” e doverosa partecipazione all’Europa di tutti (gli altri), una certa consapevolezza e desiderio di azione cominceranno a manifestarsi.
Quando tutti si mangia lo stesso pane, specialmente se ammuffito, si cerca di cambiare…

Scritto il 19 Ottobre 2013 at 19:43

Vi ringrazio per l’eccessiva fiducia ma il post è composto praticamente in TOTO da un articolo di un professore di Economia della Bocconi, Tommaso Monacelli
In realtà l’obiettivo del post, oltre che portare le giustificazioni del prof sopra citato, cercare di far capire a tutti che fare “dietrologia” non ci porterà da nessuna parte.
Ora siamo nell’Euro e dobbiamo cercare di trovare il modo per uscire il meglio possibile da questa situazione.
Ma l’equazione: Ripresa = NO € è spesso guidata più dal cuore che dalla logica economica.
Come tutti voi sapete benissimo, il problema è MOLTO complesso e di difficile soluzione anche perchè NON esistono precedenti nella storia.
Detto questo…
Buona discussione a tutti!

idleproc
Scritto il 19 Ottobre 2013 at 19:46

Dotta esposizione da leggere con calma, domani.

kry@finanza,

Concordo ma non è solo per il pubblico come costo “passivo” è anche come funziona, se funzionasse sarebbe un investimento.
E’ l’opposto.
Il “pubblico” è da allargare inoltre a tutto il sistema politico-clientelare associato, comprese le operazioni legislative che creano lavoro fittizio in servizi imposti alla produzione con ulteriori adempimenti, alle onlus fantasy, agenzie etc.
Non parliamo poi della selezione qualitativa.
E’ il sistema che non funziona, è il sistema che è da rifare, compreso il cosiddetto federalismo che ha aperto buchi colossali fuori dalla contabilità dello Stato oltre ad aver espanso la casta in baronie locali e ricatti spartitorii a tutti i livelli.
Potrei raccontarvi un’ampia gamma di anneddoti, roba da prendere il fucile.
Non credo sia necessario, lo sapete già.
La questione non è a mio giudizio euro o non euro, è eurozona o non eurozona.
Uscire dall’euro senza recuperare in toto la sovranità è una cura peggiore della malattia.
E’ anche ovvio che da soli non si può stare, è necessario stringere alleanze economico-politiche e creare eventuali zone di libero scambio ma non, come è successo per la cosiddetta europa, sulla base di interessi di minoranza e antidemocratici.
Per restare come casta e allargarsi non facendo le riforme sistemiche, si son venduti l’Italia.

Altra questione è quella della produttività… non va vista isolata dal contesto globale, non puoi aprire tutto… si contratta… si deve gestire il processo… altrimenti lo gestiscono quei gruppi di interessi minoritari finanziario-oligopolisti sovracontinentali che lo hanno pilotato gestendosi i governi nazionali come governi coloniali… anche in US… e si sono quasi demolito il sistema produttivo. Lì penso ci saranno problemini per via del $ moneta di riserva in declino.
Con grandi fanfare di propaganda teleguidata ed economisti a gettone ne hanno gestito anche l’ideologia e sono i responsabili diretti sia della crisi finanziaria che del disastro sociale che si va delinendo.
Non sono responsabili della crisi nell’economia reale perché è una crisi di lungo periodo che ha innescato la crisi finanziaria portando alla luce tutto il fasullo creato e le contraddizioni già presenti.
Dei “grandi”, solo Cina e Russia hanno gestito politicamente il processo anche se l’idea dei nostri eroi era quella di destabilizzarle entrambe per aver campo libero.

dfumagalli
Scritto il 19 Ottobre 2013 at 22:46

Io la farei molto più breve.

Mischiare la questione Euro o non Euro con l’andamento dell’Italia è un falso ideologico. Così come è un falso ideologico attribuire tutte le colpe al “ventennio”.

L’Euro ha semplicemente fatto risalire a galla le legioni di scheletri sepolti nell’oceano a partire dagli anni 40.

L’Italia ha semplicemente deviato con forza da uno sviluppo “normale” che la avrebbe portata a dominare persino sulla Germania. Da molti decenni.

Le storture si sono accavallate. Il capitalismo non era industriale ma predatorio e questo già da prima della seconda guerra mondiale. Le banche avevano già fatto grandi pasticci e commisioni persino da prima (vedere libri di storia sulla prima metà del 900).
La mafia era già parte integrante e governante di diverse aree del Sud.
C’erano già le logge massoniche, anche se all’epoca erano più rivolte contro il Papa che nel dopo guerra.

Insomma c’era già tutto il marcio.

Un marcio che piaceva e piace tutt’ora. Una commistione politico-affaristico-mafiosa che è tanto efficace a creare enormi aree di clientela, dissesto, connivenza e corruzione.

Mentre il resto dell’Europa fronteggiava anche con fatica alle proprie problematiche, la classe dirigente dell’Italia viveva da cicala cieca. Cicala ma anche cavalletta vorace.

Un protagonista in tutti i sensi del secolo scoro, Andreotti, riassumeva in un breve motto tutta l’Italia a partire dall’unione nazionale:

“Tiriamo a campà”.

E quindi mentre gli altri facevano piani di lungo respiro noi eravamo presi a sprecare i frutti degli anni belli della ricostruzione.

Gli anni 90 sono solo una tappa importante, quella in cui i Paesi europei hanno iniziato a confrontarsi, economia contro economia, industria contro industria, politica contro politica.

E l’Italia è giustamente non poteva che perdere, soccombere ed incamminarsi sulla strada di un declino. Un Paese in apparenza forte ma dai piedi d’argilla e vetro.

L’Euro ha semplicemente sancito il lavoro diligente e prolungato di altri ed amplificato il disastro innanzi tutto morale dell’Italia. Basta aprire un qualunque giornale per vedere lo stesso “capitalismo” senza capitali e predatorio che era già in voga 60 anni fa. Per non parlare di politica e quant’altro.

Ora, uscire dall’Euro non rende magicamente onesti i politici né i faccendieri. Aiuta solo a nascondere gli scheletri dell’armadio per un po’, prima che siano così tanti che anche senza Euro l’armadio esploderà. E l’Italia mostrerà gli scheletri e sarà un cimitero.

dfumagalli
Scritto il 19 Ottobre 2013 at 22:49

Errata corrige: nelle prime righe, “commisioni” doveva essere “commistioni”

idleproc
Scritto il 19 Ottobre 2013 at 22:54

Un interessante articolo sul rafforzamento dello yuan to a 20-year high.

http://asiaconf.com/2013/10/19/china-is-embracing-bold-reform

Faccende di politica economica che può fare una nazione sovrana… ma che da noi son cose “superate”.
Gente molto intelligente i nostri Bocconiani.

kry
Scritto il 19 Ottobre 2013 at 23:49

paolo41,

—-” Se si potesse parlare direttamente con Prof. Monacelli mi piacerebbe porgli, alla fine della sua dotta esposizione, la seguente domanda:
come mai un operaio prima dell’euro guadagnava dai LIT. 1.200.000 a 1.500.000 al mese, pagava la rata del mutuo e non aveva problemi ad arrivare alla fine del mese, anzi risparmiava qualcosa e invece ora con € 1.300/1.400 al mese, cioè il doppio dell’equivalente in lire, non arriva alla fine del mese ????? “——- Mi permetto di rispondere senza scomodare il prof. Monacelli. Prima dell’euro, cioe negli anni ’90 i tassi arrivavano anche al 12% annuo. Il btp trentennale 2029 se non ricordo male come tasso facciale fa 9% lordo perciò quasi 8% netto e siamo alla fine degli anni 90. Una famiglia di tre persone con un tempo pieno contratto indeterminato un contratto part-time indeterminato e figlio sedicenne alla prima esperienza lavorativa poteva permettersi di risparmiare anche 2 milioni all’anno e dopo 5 anni prendeva come interessi 1 mensilità ( 1 milione ), praticamente gl’interessi sui risparmi alimentavano il risparmio stesso. Infatti a quei tempi con 100/120 milioni ( teoricamente ) ci si poteva permettere anche di non lavorare. Ora innanzi tutto operai che prendono 1300/1400€ mese non credo ce ne siano molti poi in una famiglia di tre persone solo uno lavora e il figlio sedicenne è costretto a studiare ( quindi + costi e – risparmio) sono passati praticamente 20 anni e bisogna tener conto dell’inflazione sopprattutto quella occulta ( per esempio la valutazione delle case che non rientra nel computo dell’inflazione ) infine quello che risparmi quanto rende praticamente zero, anzi aggiungiamo costo c.c. i dossier titoli quando allora sopprattutto all’epoca della nascita dei fondi comuni il guadagno era netto anche sulle azioni. Io invece mi pongo un altra domanda simile: ” Oggi quanto devo avere per ottenere 1400€ d’interesse mensile, sicuramente non bastano 180.000€ ( calcolo approsimativo parametrato al milione d’interesse anni ’90) e tra 15-20 la gioventù odierna cosa si ritroverà.”

kry
Scritto il 19 Ottobre 2013 at 23:59

idleproc@finanza,

Ti ringrazio per aver seguito ed amplificato il mio pensiero, d’altronde il concetto “…..e solo per gli amici o a chi mi fa più comodo.” era riduttivo e sottintendeva troppo. Ciao.

gioc
Scritto il 20 Ottobre 2013 at 00:15

Premesso che dopo i risultati del salva qui e cresci là del Ragionier Monti sull’economia italiana ho deciso che non vale la pena di perdere tempo con i cosiddetti accademici bocconiani. Quanto agli sforzi dell’autore del post di presentarsi come imparziale rispetto alla disputa Euro si Euro no lo capirebbe pure un bambino da che parte sta. In ogni caso nessuna argomentazione può negare l’esproprio , in nome del libero mercato , fatto dall’eurofascismo di marca tedesca. Parliamo di comunità europea ma comunità di che cosa? Il grande capitale finanziario e industriale sta espropriando la democrazia in Europa . I Greci saranno stati poveri e pure evasori ma la loro povertà era comunque dignitosa ora sono alla fame e devono vendersi il loro Paese a pezzi al miglior offerente per poter sopravvivere. Quanto ai burocrati di Bruxelles ricordano molto la grigia burocrazia dell’URSS , gente privilegiata , mai eletta da nessuno che in nome del Dio mercato passa sopra le sofferenze dei popoli come quegli altri , prima, in nome dell’ideologia comunista . Appunto siamo in presenza di ideologia , mentre i risultati sono sotto gli occhi di tutti con il rinascere di estremismi e potenziali conflitti fra gli Stati d’Europa. Solo per questo l’euro andrebbe distrutto. Ci penserà la geopolitica che non piace affatto al Prof. Bagnai , ci penserà la Francia.

kry
Scritto il 20 Ottobre 2013 at 00:27

gioc@finanzaonline,

Hai quasi fatto centro, forse per un uso improprio delle parole. Non si parla mai di stati uniti d’europa ed è errato dire comunità europea ma bensi UNIONE EUROPEA e questo sancisce ( per cui concordo in pieno) la somiglianza con l’URSS. La nostra potremmo etichettarla UESM ovvero Unione Europea al Servizio delle Multinazionali.

kry
Scritto il 20 Ottobre 2013 at 00:42

idleproc@finanza,

Hai voglia di soddisfare una mia curiosità. Te lo chiedo con un indovinello. Delle sette da cui è fomato in una delle tre con la stessa iniziale o delle altre quattro? Ciao.

gioc
Scritto il 20 Ottobre 2013 at 00:44

kry@finanza,

Grazie per il “quasi fatto centro”. Sono pienamente d’accordo con te. L’unica vera libertà realizzata in Europa è quella del grande capitale industriale e finanziario sulla pelle dei popoli europei senza freni e controllo alcuno. Non è questa l’Europa che ho sognato e sperato , non c’è solidarietà alcuna ne ideali , ma solo interessi nazionali e per di più delle élite economiche del Nord Europa. Mi limito a constatare i danni che l’unione monetaria sta creando alla gente ,la disperazione e l’impoverimento e la sottrazione di democrazia. Anche un cieco vedrebbe che il sistema non funziona. Tutto il resto sono chiacchiere.

kry
Scritto il 20 Ottobre 2013 at 01:06

gioc@finanzaonline,

Tradotto in parole povere , tutto il mondo è paese ( per cui non solo l’europa ) che si sottomette ai profitti delle MULTINAZIONALI ( personalmente in un mondo globalizzato trovo riduttivo “… e per di più delle élite economiche del Nord Europa “). Il male del mondo sono le multinazionali che spadroneggiano andando dove le porta il profitto o meglio nel paese dove la classe politica gli fa pagare meno tasse. Qualche comico farebbe la battuta ” E’ la globalizzazione caro mio che ci vuoi far ” ma più che far ridere apre gli occhi all’amara verità. Buonanotte.

gioc
Scritto il 20 Ottobre 2013 at 01:12

kry@finanza,

Concordo pienamente , solo che l’Europa che sognavamo, quelli della mia generazione, rappresentava una speranza per il cambiamento ed il futuro. Probabilmente solo illusioni giovanili. Buonanotte anche a te.

Lukas
Scritto il 20 Ottobre 2013 at 11:35

In realtà le critiche all’euro servono solo a mistificare la verità….gli italiani infatti avrebbero voluto:

1) continuare ad andare in pensione a 40 anni
2) continuare a farsi assumere clientelarmente ed a vita in inefficienti uffici pubblici
3) continuare ad evadere in massa il versamento delle imposte
4) continuare a far raddoppiare il costo di ogni appalto pubblico, mediante il versamento sistematico di tangenti
5) continuare a trescare con mafia ndrangheta camorra etc
6) continuare a tenere sommersa una quota enorme della sua economia
7) etc..etc..etc.

e risolvere tutte le suddette inefficienze e distorsioni….svalutando ogni 3/4 anni …. la vecchia beneamata ” liretta ” a danno di tutti gli altri Paesi piu’ virtuosi.

Ma il giochetto non poteva piu’ durare perchè i debiti accumulati…erano ormai talmente tanti….che la mancata entrata nell’euro avrebbe comportato un livello di tassi di interesse per il finanziamento di tale ingente debito…..almeno quintuplo dei tassi attuali….ed il Paese sarebbe già da tempo fallito.

dfumagalli
Scritto il 20 Ottobre 2013 at 14:01

Lukas:
In realtà le critiche all’euro servono solo a mistificare la verità….gli italiani infatti avrebbero voluto:

1) continuare ad andare in pensione a 40 anni
2) continuare a farsi assumere clientelarmente ed a vita in inefficienti uffici pubblici
3) continuare ad evadere in massa il versamento delle imposte
4) continuare a far raddoppiare il costo di ogni appalto pubblico, mediante il versamento sistematico di tangenti
5) continuare a trescare con mafia ndrangheta camorra etc
6) continuare a tenere sommersa una quota enorme della sua economia
7) etc..etc..etc.

Ecco qui il mio post condensato. Non ci va un professorone bocconiano per capire che il problema dell’Italia sono gli italiani.

Io avevo scritto:

“Insomma c’era già tutto il marcio.

Un marcio che piaceva e piace tutt’ora. Una commistione politico-affaristico-mafiosa che è tanto efficace a creare enormi aree di clientela, dissesto, connivenza e corruzione.”

Il marcio viene da lontano. Il marcio è dentro tutti noi, il primo passo in questi casi è ammetterlo. Solo dopo l’accettazione viene il tentativo di guarirne.

kry
Scritto il 20 Ottobre 2013 at 14:11

Lukas,

Concordo in parte, in verità certe cose si continuano a fare ….. e a pagare però continuano ad essere gli altri. Ah e poi scusa quali sarebbero i paesi virtuosi quelli che adesso ci impongono l’austerità e giocano a fare i furbetti ? Già peccato che tra i maggiori contribuenti dell’ UE ci sia l’italia e intanto aiutiamo anche i conti delle banchette tetesche.

gioc
Scritto il 20 Ottobre 2013 at 14:44

Questo autolesionismo masochistico ed anti italiano mi da il vomito. La corruzione, la mafia, l’evasione fiscale ed il clientelismo c’erano pure prima dell’euro. Solo che da quando c’è l’unione monetaria i fenomeni sono aumentati e non diminuiti. Quanto poi ad offendere gran parte degli italiani onesti che tirano la carretta tutti i giorni , prima di parlare pensate ai vari Strauss Khan , Hartz , alla guerra irachena dei Bush padre e figlio, alle tangenti Siemens , alle manipolazioni truffaldine delle grandi e splendide banche inglesi e tedesche sul Libor agli scandali Enron , Maddoff , ai suicidi nelle fabbriche dell’Apple in Cina , alle politiche delle multinazionali tipo Ciquita e di quelle petrolifere, agli interventi umanitari dei cacciabombardieri francesi ed inglesi in Libia , dove , guarda caso le industrie italiane avevano la stragrande maggioranza degli appalti e delle licenze petrolifere. Potrei continuare per pagine e pagine con gli esempi. Berlusconi a confronto è uno scolaretto che ha compiuto qualche marachella. Certo moralismo d’accatto e la incapacità di vedere la realtà è sconsolante e la pagheremo tutti molto cara.

gainhunter
Scritto il 20 Ottobre 2013 at 15:03

Lo studio non dimostra che l’euro non ha provocato danni all’economia dell’Italia, si limita solo a dire che l’euro non ha causato il calo di produttività (diverso da competitività).

Per chi è interessato a sentire l’altra campana in merito al contenuto del post:
http://bastaconleurocrisi.blogspot.it/2013/08/amerikani-e-spaventapasseri.html
http://goofynomics.blogspot.com/2013/08/colleghi.html?showComment=1376654115363#c4055984053029667459

gioc
Scritto il 20 Ottobre 2013 at 15:07

Continuiamo così e prima o poi ci saranno nuove guerre di liberazione in Europa.

gainhunter
Scritto il 20 Ottobre 2013 at 15:37

Lukas: 1) continuare ad andare in pensione a 40 anni
2) continuare a farsi assumere clientelarmente ed a vita in inefficienti uffici pubblici
3) continuare ad evadere in massa il versamento delle imposte
4) continuare a far raddoppiare il costo di ogni appalto pubblico, mediante il versamento sistematico di tangenti
5) continuare a trescare con mafia ndrangheta camorra etc
6) continuare a tenere sommersa una quota enorme della sua economia
7) etc..etc..etc.

I punti 1 e 2 non sono mai state le aspirazioni dei cittadini lombardi, in particolare negli uffici pubblici del Nord la concentrazione di personale immigrato dal Sud è sempre stata elevatissima.
Per il 3, il 5 e il 6 ci sono differenze abissali tra Nord e Sud (che non vuol dire che al Nord non si evade, non c’è la mafia e non c’è sommerso, lo scrivo per evitare sterili polemiche).
Quindi non generalizzare a tutta l’Italia quello che vale per una parte dell’Italia. Grazie.

ilcuculo
Scritto il 20 Ottobre 2013 at 19:20

kry@finanza,

Tassi dei BTP che permettevano di vivere di rendita con 120 Milioni di lire ????

Ma c’eravate o ve la siete fatta raccontare?

Avete idea di cosa fosse l’Inflazione a quei tempi ? Oggi si urlerebbe a Weimar…

ilcuculo
Scritto il 20 Ottobre 2013 at 19:34

kry@finanza,
come
Quindi la risposta è … la produttività in Italia cala perchè è eccessivamente appesantita dalla componente fiscale, che serve a pagare le inefficienze e la corruzione del sistema Italia.

kry
Scritto il 21 Ottobre 2013 at 10:23

ilcuculo@finanza,

Caro cuculo, qualcuno ti risponde perchè comunque ti rituene intelligente mentre più di qualcuno ti ha risposto che ragioni come un cucu se non con quel che rimane del tuo nikename. Magari ieri non era proprio una bella giornata e di post da andrea ne leggi molti che comunque di davano risposte in merito. Prima di sparare scemenze l’inflazione a quei tempi è stata massimo 6,4 nel 91 ( http://cronologia.leonardo.it/inflazio.htm ) e tieni conto che nel 92 c’è stato l’attacco di soros alla lira con relativa svalutazione. Se a quei tempi avevi altro da fare ben per te , cerca oggi di non sparare…….. Ciao. Riguardo la produttività prova ad illuminarmi con qualche coomento illuminante o perlomeno forniscimi qualche link che confermi il contrario di quel che ipotizzo. Ri ciao.

Lukas
Scritto il 21 Ottobre 2013 at 13:28

gioc@finanzaonline,

Affermi che ” Questo autolesionismo masochistico ed antitaliano mi da il vomito “…parli di ” moralismo d’accatto “…ed infine auspichi ” nuove guerre di liberazione in Europa ”

Penso che tali affermazioni si commentino da sole….quindi evito di replicare……aggiungo soltanto, a chiarimento ulteriore del mio pensiero, che le tue frasi confermano che : ” i vizi italiani possono essere risolti solo da forze esogene al sistema….quindi spero che l’Euro e le sue rigide regole.siano solo il primo passo….per passare poi alla costituzione degli Stati Uniti d’Europa…….in modo da completare la Guerra di Liberazione gia’ iniziata 70 anni orsono dagli Usa e dalle forze democratiche italiane ed europee “

Lukas
Scritto il 21 Ottobre 2013 at 13:48

gainhunter,

Vedo che hai volutamente omesso il punto 4 dei vizi italici…..nel tentativo credo….di dimenticare ….la lunga ed interminabile sequela degli illibati imprenditori del Nord…. che varcavano già 20 anni orsono la soglia della Procura della Repubblica di Milano…..a denunciare il sistema delle ” mazzette “……che facevano lievitare a dismisura il costo di ogni appalto pubblico….in modo da procurarsi la provvista per finanziare i politici…..e per tacitare le pretese economiche delle “ndrine” che ti illudi abbiano residenza…..negli anfratti dell’Aspromonte…..o nei casolari delle campagne siciliane……evidentemente non hai la minima idea di quanti soldi dispongono……..che non vengono certamente investiti in loco……….nell’acquisto di pecore e muli :mrgreen:

ilcuculo
Scritto il 21 Ottobre 2013 at 15:40

kry@finanza,

🙄

restando all’aritmetica che maneggio meglio potrei suggerire di calcolare il potere d’acquisto equivalente della cedola di un BTP decennale emesso nel 1985 al 12% netto su un capitale di
£100.000.000 ovvero quel famoso £ 1.000.000 al mese che nel 1985 era un discreto stipendio, dopo la seguente serie storica per l’inflazione 8.6%, 6.1%, 4.6%, 4.9%, 6.6%, 6.1%, 6.4%, 5.4%, 4.2%, 3.9%.
Significa una riduzione del potere d’acquisto del 45% quindi una valore equivalente dopo 10 anni di £ 550.000 al mese ed una equivalente perdita di valore del capitale. Capitalizzando gli interessi invece alla fine del decennio avresti avuto un rendimento netto del capitale del 22% in 10 anni.

Se poi vogliamo vedere che l’Italia in quel decennio ante Euro ha pagato un differenziale sull’inflazione molto più alto di quello che paga oggi e che ha avuto quasi sempre una curva dei tassi piatta mi domando come si faccia a dire che l’Italia della Lira in quel periodo fosse in condizioni migliori di quella di oggi.

Ovvero per alcuni aspetti stava meglio, ma non c’entra l’introduzione dell’Euro. Che invece ci ha permesso di avere anni di tassi relativamente bassi e inflazione contenuta.

Ma tant’è, ai problemi del passato siamo sopravvissuti, a quelli del presente e del futuro chi lo sa ?

non vorrei invece addentrarmi su discussioni sull’intelligenza dei frequentatori di questo ed altri blog, che mi pare fuori luogo …come diceva Arthur Bloch

kry
Scritto il 21 Ottobre 2013 at 18:33

ilcuculo@finanza,

Senti cuculo maneggia qualcos ‘altro forse ti riesce meglio e non me la menare tanto. Si è partiti da prima dell’euro e si è arrivati per comodità matematica tua all’85. Ma fammi il piacere nel novembre 1993 btp 2023 rendimento 8% netto e inflazione max 5,4 nel 95 con alcuni anni seguenti sotto il 2% e allora si risparmiava e reinvestivi l’interesse del risparmio. A proposito mi hai scritto…Avete idea di cosa fosse l’Inflazione a quei tempi ? Oggi si urlerebbe a Weimar…
e poi…..la seguente serie storica per l’inflazione 8.6%, 6.1%, 4.6%, 4.9%, 6.6%, 6.1%, 6.4%, 5.4%, 4.2%, 3.9%. Ammazza che coerenza e non discolparti dicendomi che era una provocazione perchè non me la bevo. Ciao.

ilcuculo
Scritto il 21 Ottobre 2013 at 20:50

kry@finanza,

Discolparmi ? Ma fammi il piacere….

come diceva Arthur Bloch… meglio lasciar perdere…

kry
Scritto il 21 Ottobre 2013 at 21:01

ilcuculo@finanza,

Si bravo lascia perdere e leggi tutto prima di replicare. Tanto replichi quel che ti pare e come ti pare. Su quello che mi hai scritto non hai nulla da controbattere e sulla produttività ?

kry
Scritto il 21 Ottobre 2013 at 21:29

ilcuculo@finanza,

Ti riferivi forse a questo ? “I cretini sono sempre più ingegnosi delle precauzioni che si prendono per impedirgli di nuocere.”

ilcuculo
Scritto il 21 Ottobre 2013 at 21:57

kry@finanza,

No, ritenta…

gainhunter
Scritto il 21 Ottobre 2013 at 22:21

Lukas,

Non c’è bisogno di fare un processo alle intenzioni, hai scritto 5 cose chiaramente false se riferite agli Italiani del Nord e quindi ho voluto puntualizzare; ho omesso il punto 4 semplicemente perchè non ho dati a disposizione e non mi interessava evidenziare un’eventuale differenza tra Nord e Sud a questo proposito.

Ripeto:
Per il 3, il 5 e il 6 ci sono differenze abissali tra Nord e Sud (che non vuol dire che al Nord non si evade, non c’è la mafia e non c’è sommerso, lo scrivo per evitare sterili polemiche).

Tu hai detto che gli Italiani vogliono trescare con la mafia.
Al Nord la mafia si intrufola e poi si impone, non viene cercata, e se viene cercata il più delle volte chi la cerca è già in odore di mafia (e proviene dal Sud). Al Sud la mafia ha un potere, una diffusione e una visibilità talmente alte che alcuni ragazzi imbecilli ammaliati dal potere e dal denaro aspirano a diventare mafiosi; al Nord questo non succede.
Al Sud i rapporti tra politica e mafia sono la regola, al Nord sono l’eccezione (da combattere con tutte le forze): http://www.federalismocriminale.it/Documents.asp?DocumentID=10381
E se non si trova una via d’uscita a questa crisi, la mia paura è che il Nord finisca allo stesso modo (e infatti negli ultimi anni la situazione sta peggiorando). Perchè la crisi favorisce la mafia.

Io non ho mai cercato in una presunta superiorità degli Italiani nordici i motivi delle differenze abissali tra Nord e Sud in innumerevoli campi, al contrario mi sembra di notare una sorta di razzismo nei confronti degli Italiani quando si dice che gli Italiani sono moralmente e culturalmente arretrati (o “inferiori”?) rispetto ai Nordeuropei. Ma se le caratteristiche per cui gli Italiani sarebbero inferiori sono quelle che hai citato tu, allora è logica conseguenza (nota che sto seguendo un ragionamento non mio) che gli Italiani del Sud siano moralmente e culturalmente inferiori rispetto agli altri Europei e anche agli Italiani del Nord.

lampo
Scritto il 21 Ottobre 2013 at 23:46

gainhunter,

Al Nord la mafia si intrufola e poi si impone, non viene cercata, e se viene cercata il più delle volte chi la cerca è già in odore di mafia (e proviene dal Sud). Al Sud la mafia ha un potere, una diffusione e una visibilità talmente alte che alcuni ragazzi imbecilli ammaliati dal potere e dal denaro aspirano a diventare mafiosi; al Nord questo non succede.
Al Sud i rapporti tra politica e mafia sono la regola, al Nord sono l’eccezione (da combattere con tutte le forze)

Purtroppo siamo già ad uno stadio più avanti anche al Nord… e viene tenuto il più possibile in silenzio, per permettere il dilagarsi approfittando della crisi economica (fino a poco tempo fa facevo parte anch’io tra quelli che la pensava come te).
Se vuoi approfondire, con molti articoli interessanti e anche molto materiale “probatorio” prova a dare un’occhiata qui:
http://www.casadellalegalita.org/
Troverai fior fiore di notizie, intrecci… con anche menzione di molte società quotate in borsa… il cui andamento si spiega meglio dopo aver letto certe situazioni.

gainhunter
Scritto il 23 Ottobre 2013 at 01:53

lampo,

Grazie lampo per il link e la precisazione; gli ho dato un’occhiata veloce ma lo guarderò con più calma.

Da alcuni articoli sulla diffusione della mafia al Nord, dal rapporto sulla criminalità del ministero dell’interno e soprattutto dall’osservatorio sulla criminalità del CNEL (http://www.amblav.it/news_dettaglio.aspx?IDNews=6836) io rilevo che la diffusione delle mafie al Nord tra gli anni 60 e 90 è avvenuta per l’intelligenza e la strategia attuate per infiltrarsi (“imprenditoria del crimine”) e non per un ipotizzato humus culturale di cittadini consenzienti o addirittura accoglienti e di amministrazioni corrotte e spregiudicate (come qualcuno voleva far credere):
– è vero che le mafie al Nord ci sono e hanno preso il controllo di alcuni settori dell’economia
– hanno sfruttato l’immigrazione dal Sud per entrare nelle amministrazioni locali (compravendita di voti con i corregionali di origine)
– hanno avviato attività perfettamente lecite che servivano da “apri-pista”
– poi sono riuscite a acquisire la proprietà di aziende e sostituire imprenditori sani con loro uomini
– le amministrazioni locali e i cittadini le hanno rifiutate (“Il documento della prefettura parlava di differenza sostanziale che discendeva da questi fattori: popolazione, ambienti politico-culturali, della imprenditoria e centri amministrativi che si erano mostrati refrattari alle infiltrazioni ed alle ingerenze dei malavitosi”; “la presenza mafiosa non assume le caratteristiche di controllo del territorio per la mancanza del consenso sociale, per l’assenza di fenomeni di copertura ed omertà e perché, tranne limitate situazioni già individuate e
perseguite nel passato o attentamente seguite nel presente, non ci sono fenomeni di evidenziazione nella vita pubblica e amministrativa da parte di gruppi criminali”; si parla degli anni 90); solo in *alcuni casi* si sono verificate al Nord “una situazione di assoggettamento e di omertà similare a quella messa in atto dalle associazioni mafiose operanti in talune aree della penisola a più alta concentrazione mafiosa”

In pratica la mafia al Nord esiste perchè pezzi del Sud si sono spostati in blocco al Nord, emigranti in cerca di lavoro insieme a mafiosi mimetizzati da emigranti. Infatti poi si scopre che generalmente non sono imprenditori del Nord in affari con le mafie ma imprenditori residenti e operanti al Nord ma immigrati anni prima dal Sud.

Successivamente, negli stadi più avanzati (anni ’00), hanno iniziato a avere dei referenti amministrativi e politici e tessere rapporti con i cosiddetti “colletti bianchi” (intermediari finanziari, impiegati bancari, esponenti dell’alta finanza, commercialisti), la cui identità risulta difficile da individuare perchè non sono persone originariamente mafiose (almeno in apparenza), con lo scopo di riciclare denaro (tramite società di comodo, paradisi fiscali, ecc.), individuare società da acquisire e altri servizi finanziari.
Ma gli stessi agganci li hanno trovati in Francia e in Svizzera, e sono situazioni in cui ovunque nel mondo non è difficile trovare chi davanti a ingenti quantità di denaro non si fa troppe domande.

Quindi, sì, la criminalità organizzata nel Nord Italia ha fatto passi da gigante, ma è falso che i cittadini del Nord (inteso come “originari del Nord”) ci sguazzano. Se vogliamo vederci una mentalità, un humus, ecc. che porta a fare affari con la criminalità, è quello portato dal Sud e rimasto tra i cittadini originari del Sud (considerando che le eccezioni ci sono sempre).

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